di MATTEO ABRIANI, Università degli Studi di Bologna, corso di laurea triennale in Filosofia, secondo anno.
Credo sia necessario separare le due questioni: la scelta della facoltà e quella dell’ateneo. Né è possibile comporle insieme, quasi si trattasse di un “sistema a punti”, dove quelli “persi” con una scelta ritenuta poco vantaggiosa possono essere “recuperati” optando per un’università vincente.
Partirei allora con il dire perché ho scelto di fare Filosofia, enumerando in estrema sintesi i “pro” e i “contro”.
I pro sono abbastanza ovvi, gli stessi che spingevano gli aristocratici ateniesi Platone e Aristotele a lambiccarsi sulle questioni più profonde della vita e del cosmo: il libero sfogo dato a una passione intellettuale, l’adempimento della propria vocazione, la valorizzazione a 360° della propria formazione umanistica iniziata al liceo, ma anche il conseguimento di posizioni lavorative in prospettiva molto interessanti. Insomma, non c’è solo l’insegnamento. Come scrive lo storico Yual Noah Harari in 21 lezioni per il XXI secolo (Bompiani, Milano, 2018, p. 103), in un mondo pervaso dall’intelligenza artificiale, che troverà applicazioni anche in settori dove si richiede personale altamente qualificato (medici, avvocati, ingegneri, etc.), il ruolo dei filosofi sarà sempre più valorizzato.
Anche secondo un miliardario statunitense, Mark Cuban, intervistato da AOL nel 2017, “in 10 years, a liberal arts degree in philosophy will be worth more than a traditional programming degree.”
Non si tratta, beninteso, di voci isolate ed eccentriche. In una ricerca autorevole sul mondo del lavoro, commissionata dalla Camera dei Deputati a un gruppo di esperti coordinati dal sociologo Domenico De Masi (e pubblicata da Marsilio nel ’17 con il titolo Lavoro 2025), emerge la medesima previsione.
Insomma, dal punto di vista lavorativo, i filosofi possono ben sperare.
Passiamo ora ai “tasti dolenti”, fra cui non annovererò la prospettiva economica, che pure merita di essere considerata, almeno fino a quando questi vaticini non diventeranno realtà.
In primo luogo, mi sono reso conto che, quando un hobby – com’era per me la lettura occasionale e scombinata di saggi filosofici – diventa un mestiere, perde gran parte del suo fascino. L’approccio universitario finisce per irreggimentare lo studio autonomo, disarticolato e un po’ ingenuo dei pomeriggi liceali nelle maglie rigorose di un metodo quasi filologico. Ciò da un lato, favorisce una migliore e più profonda penetrazione del pensiero filosofico (in sostanza, leggendo le tre Critiche, si capisce meglio il pensiero di Kant rispetto a dieci pagine di manuale), dall’altro, si perde quell’attitudine giocosa e superficiale che rendeva la filosofia un appassionante intrattenimento intellettuale.
In secondo luogo, il rischio di “dispersione”, specie dinanzi a quegli aspetti della disciplina che risultano maggiormente graditi.
In terzo luogo, la sottovalutazione della differenza, talvolta abissale, che intercorre tra le diverse branche filosofiche. Di solito, coloro che si considerano appassionati si dilettano con testi morali o politici, e ignorano (o rifuggono) ambiti più ostici, come la logica o l’epistemologia. Mentre nel corso della triennale si trattano tutti e a 360 gradi.
Chiudo con tre suggerimenti: il primo è quello di non confondere la disciplina con l’ateneo in cui la si andrà a studiare. L’applicazione personale ai testi costituisce la parte preponderante degli studi filosofici. La facoltà di filosofia non offre, a mio avviso, contenuti particolarmente criptici, ma impone di macinare moli bibliografiche non indifferenti, anche se paragonate ad altre, più professionalizzanti, come giurisprudenza o ingegneria (dai dieci ai venti tomi per esame, tra saggistica, manuali e testi originali).
Il secondo consiste nella scelta di piani di studio all’avanguardia (come quelli dell’Università di Bologna), che includano un’ampia parte interdisciplinare: non solo storia e discipline psico–pedagogiche, propedeutiche all’insegnamento, ma anche informatica, scienze naturali, intelligenza artificiale, bioetica, lingue straniere, etc.
Il terzo è di non accontentarsi di quello che si studia per gli esami e di approfondire autonomamente, magari svolgendo attività extra–curricolari connesse ai propri studi, per la formazione di un curriculum attraente e personalizzato.