E’ mercoledì 8 novembre. Per arrivare a Campi Bisenzio da Firenze occorrono all’incirca una mezz’ora di autobus e un tratto a piedi o in navetta. È quanto basta per essere catapultati in una realtà completamente differente, opposta, per certi versi assurda. Il cartello che segna l’inizio di Campi, alla stregua di un’epigrafe infernale, scansiona nettamente un prima e un dopo. Non appena arrivati un odore acre pervade le narici. Ci si abitua in fretta. Andando avanti dovunque si posi lo sguardo, sul ciglio della strada, si stagliano, imponenti, montagne di rifiuti impregnati di acqua e fango. Ci vuole poco a realizzare che quell’ammasso informe di cose non meglio classificabili sino a una settimana fa erano oggetti. Oggetti utili, oggetti inutili, oggetti strani, oggetti preziosi: oggetti che raccontavano una storia. Adesso il fango si è portato via tutto, anche i ricordi.
Per le strade, oltre agli alluvionati, si incontrano molte persone, per lo più studenti come noi. Il sentimento comune innanzi a tale vista è di sgomento. La situazione a primo impatto è piuttosto inverosimile, paradossale. Nessuna immagine o racconto renderebbe bene l’idea: l’unica via per capire è andare sul luogo, toccare con mano la devastazione dell’acqua.
L’organizzazione, o, meglio, la non-organizzazione dei volontari, è alquanto casuale. Si va dove c’è bisogno, facendo quel che si può, con i mezzi che si hanno a disposizione. A chiedere una mano sono in molti, noi finiamo in un garage ed iniziamo a svuotarlo. Tiriamo fuori di tutto, dalle cose più piccole a quelle più ingombranti, dalle più insignificanti a quelle più care: dagli armadi alle reti dei letti, dai libri a delle piccole scarpine, chissà, forse le prime di un figlio. Rompiamo mobili, raccogliamo oggetti, buttiamo tutto in strada e ripetiamo ancora e ancora. La nostra mattinata continua così, rendendoci utili come possiamo in mezzo alla devastazione.
Guardare negli occhi chi in questi giorni ha perso tutto è un’esperienza intensa. Si legge la stanchezza nei volti di ognuno, talvolta smorzata da un sorriso e da una prorompente ironia, altre mischiata alla disperazione totale. A rimanere in bocca è un sapore di dolceamara rassegnazione. Dolceamaro come lo scambio di battute che abbiamo avuto con uno dei campigiani colpiti dall’alluvione: “Dove possiamo buttare questa cartaccia?” “Dove volete, c’è un tale troiaio. Avete una sigaretta per un alluvionato piuttosto?”.
Dopo diverse ore trascorse nel garage, scoraggiati dal freddo, complice l’abbigliamento inadeguato, decidiamo di tornare a casa. Immediatamente ci rendiamo conto del grandissimo privilegio che costituisce il poter andare e venire, il poter vivere la nostra vita e marginalmente prestare il nostro aiuto. Comprendiamo il valore delle cose più scontate e ci sentiamo infinitamente grati di poter andare a scuola all’indomani. Proprio in virtù di questo immenso privilegio capiamo come rendersi utili in qualche modo sia anzitutto un dovere morale nonché un gesto in coerenza con l’humanitas che ogni giorno ci impegniamo a coltivare.
Siamo partiti con l’idea di fare un gesto prettamente simbolico con la nostra presenza, sottovalutando la nostra possibilità di apportare un aiuto concreto. Una volta giunti sul posto, tuttavia, ci siamo resi conto della drammaticità della situazione e di come, per quanto esiguo, il contributo di ciascuno di noi, alla fine, potesse fare la differenza. In questi giorni e purtroppo per molti giorni ancora incredibilmente vicino a noi ci sono persone che soffrono moltissimo, che hanno ancora la vita ma hanno dovuto buttare sul lato di una strada le cose di una vita, completamente trasfigurate dal fango. Andare a Campi, insomma, vuol dire anzitutto dare una mano, ma non solo. Andare a Campi significa rendere concreto l’impegno alla non indifferenza di cui fin troppo spesso ci si riempie la bocca.
Scossi e spossati, a conclusione della mattinata ci dirigiamo a prendere l’autobus. In neanche venti minuti di strada l’alluvione sembrerebbe solo un lontano ricordo, se non fosse per i nostri vestiti luridi e una nuova consapevolezza nelle nostre coscienze. Recarsi nei luoghi colpiti dall’alluvione è un grandissimo bagno di realtà, oltre che di fango.
A cura di Alessia Prunecchi