La voce di chi voce non ha

L’arte, in tutte le sue diverse forme, dalla parola alla figurazione, non è solo bellezza, è anche uno strumento di denuncia: una voce per chi voce non ce l’ha.

Da sempre, da quando Eva morse la mela, la figura della donna è oppressa, marchiata, distrutta da violenze che scavalcano il solo abuso fisico. Dietro lo sguardo di infinite donne, in ogni epoca, passata e futura, nelle grandi metropoli e nei piccoli borghi, si cela una storia di dolore e violenza. Il terrore, l’impotenza di coloro che ogni mattina nascondono i lividi dietro al trucco e mascherano con un sorriso il vuoto che le pervade, trovano testimonianza nell’arte di tutti i tempi, che rende ciascuno di noi muto testimone di orrori e dolori inconfessabili.

L’amore subìto, il silenzio femminile, la sopportazione, affondano le radici già nei racconti mitologici greci. Nel 1622 trova raffigurazione scultorea per mano di Bernini il rapimento di Proserpina, uno stupro. Alla forza plastica della presa di Plutone si contrappone il disperato tentativo di resistenza della giovane: la sua bocca aperta in un grido e gli occhi rivoltati donano all’opera una dolorosa intensità.

Due secoli dopo il pittore impressionista Degas, tornando su tale tema, testimonierà, invece, in Le Viol (il quadro dell’immagine) il rassegnato tormento che segue ad un abuso, forse non sessuale, ma sicuramente psicologico.  Nuda nella sottoveste sgualcita, curva su una sedia, la vittima è fragile e impotente, disorientata, probabilmente  incapace di realizzare ciò che è appena accaduto. Il terrore pervade l’opera; è tangibile allo sguardo. Gli agghiaccianti dettagli sparsi nel luogo dello stupro, come le forbici aperte, aumentano il senso di inquietudine e partecipazione emotiva dell’osservatore. Alle spalle della giovane, trionfante nel silenzio soffocante della stanza, l’aggressore la guarda impassibile e fiero, con freddo distacco.

Ritroveremo tali tematiche, seppur declinate in maniera leggermente differente, nell’omonimo quadro, Le Viol, appunto, di René Magritte. Nel ritratto l’artista non rappresenta direttamente uno stupro, ma la figura femminile osservata da un punto di vista maschile; il volto della donna viene così trasformato in un corpo, privato di individualità, esclusivo oggetto di desiderio sessuale. Gli occhi diventano seni, il naso è un ombelico e la bocca i genitali. Emblema ciò dell’oggettivizzazione della donna nella società patriarcale.

Questi sono solo pochi esempi delle innumerevoli opere che nell’arte di tutti i tempi hanno dato e continuano a dare riscatto a violenze e ingiustizie, subite da tantissime donne ogni giorno in tutto il mondo, molto spesso nascoste, tenute segrete: ferite dell’animo silenziosi ma letali. La voce strozzata di ciascuna vittima diventa, attraverso la tavolozza degli artisti, un potente grido di denuncia, una richiesta di aiuto, un modo per far sentire ogni donna meno sola, compresa.

A cura di Giulia Maglio

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