Questo articolo fa parte del numero 26 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 10 dicembre 2021
Nel bene o nel male i grandi cambiamenti, quelli volti a mutare per sempre il corso degli eventi, avvengono in silenzio, sotto gli occhi dei sordi che si voltano dall’altra parte. Il cambiamento climatico non fa eccezione. A richiamare la nostra attenzione sono gli eventi eclatanti, le dichiarazioni ad effetto, i grandi vertici. Quello che sentiamo è il “blablabla” della politica accompagnato dal grido di una piazza gremita di giovani, giovani che vogliono cambiare il mondo. Quello che vediamo è un summit mondiale, a tratti più simile a una passerella, insieme alle immagini di una ragazzina dalle treccine strette e dalla straordinaria risonanza mediatica. Questo e nient’altro attira in massa l’attenzione dell’opinione pubblica. È in quello che passa inosservato, tuttavia, che risiede il vero stravolgimento epocale. È nel silenzio, lontano dai riflettori e dagli occhi della stampa, che il cambiamento colpisce con la massima ferocia. Così, mentre il Nord del mondo si crogiola negli agi costruiti sulle spalle altrui, sono i paesi più poveri, quelli a cui possono essere imputate meno responsabilità, a pagare il prezzo più caro.
Emblematica da questo punto di vista è la regione del Sahel, dove il deserto avanza e tutto divora. In questi luoghi la popolazione, malgrado la crescente improduttività del suolo, continua ad aumentare. Tali fattori, ai quali si sovrappone una notevole instabilità politica, costringono milioni di persone ogni anno a lasciare le proprie abitazioni, la propria terra, i propri cari: una tragedia nella tragedia. Analoga è la drammatica situazione del Madagascar, che, colpito negli ultimi anni da una prolungata siccità, sta attraversando un periodo di gravissima carestia. Si tratta di uno dei paesi africani più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici, con oltre 1.3 milioni di abitanti in una grave situazione di insicurezza alimentare.
Apparentemente opposta ma di fatto indissolubilmente legata è la minaccia alla quale si trovano a far fronte numerose aree costiere e isole del Pacifico. Se da un lato, infatti, il cambiamento climatico è all’origine di fenomeni quali la siccità o la desertificazione, dall’altro una delle prime conseguenze è l’innalzamento del livello del mare, dunque la scomparsa di intere aree costiere. Figi, Samoa e Hawaii sono solo alcuni degli stati insulari, che, pur contribuendo in modo irrisorio alle emissioni di carbonio, in un futuro spaventosamente prossimo rischiano di essere sommersi dal mare e cancellati dalla faccia della Terra.
Paradigma della più grande crisi del nostro tempo è il Bangladesh, la conceria dell’Occidente. Nel 2020 – secondo i dati forniti dall’IDMC – oltre 4.4 milioni di persone sono state sfollate a seguito di disastri naturali. Il paese è dilaniato da una parte dagli eventi improvvisi, come le inondazioni e le tempeste tropicali, dall’altra dai fenomeni a insorgenza lenta, come l’innalzamento dei mari. Il flagello del cambiamento climatico, inoltre, amplifica in modo significativo la già complessa situazione socio economica. È sufficiente pensare, ad esempio, alle deplorevoli condizioni nelle quali si ritrovano a vivere i rifugiati che lasciano le campagne e si dirigono verso i centri urbani.
Ogni anno, a causa del cambiamento climatico, oltre venti milioni di persone – l’84% delle quali risiede, secondo l’UNHCR, nei paesi del Sud del mondo – sono costrette a fuggire e a diventare profughi: un dato destinato a peggiorare, in assenza di provvedimenti efficaci volti ad arginare la crisi. Già adesso la sopravvivenza di interi popoli – in particolar modo nei paesi in via di sviluppo – dipende dalla capacità di adattarsi alle conseguenze del cambiamento. Far finta di niente non è più un’opzione. Se fino a qualche anno fa i paesi più ricchi potevano ancora illudersi che il proprio modello di sviluppo non avesse conseguenze, oggi si tratta di un’innegabile evidenza agli occhi di tutti. Malgrado ciò, il cambiamento climatico continua ad essere percepito come un qualcosa di distante, lungi da noi e dalla nostra quotidianità, tanto da giungere addirittura a dubitare se non della sua esistenza quantomeno dell’entità del problema. “Hic et nunc” diventa un imperativo morale dettato dal timore che, allargando anche minimamente le proprie prospettive, ogni certezza possa essere capovolta, come se, a ignorarlo, quasi per magia il problema si dissolvesse. Questo perché, in fondo, l’idea che la questione non ci riguardi fa comodo. Si tende a rimettere la responsabilità agli altri, ad allontanare il tutto il più possibile da noi, ad invocare provvedimenti audaci da parte della politica: a lavarsene le mani, in sintesi. Credere che (solo) l’azione dei leader sia sufficiente a cambiare le cose è, tuttavia, pericoloso, oltre che profondamente sbagliato. La rivoluzione deve partire dal basso. Ogni individuo, come membro di un qualcosa di più grande, di un insieme, deve fare la sua parte. Il cambio di passo dovrà essere epocale. Sarà necessaria una vera e propria rifondazione dello stesso modello occidentale. La strada è in salita, ma intraprenderla risulta l’unica scelta possibile, prima che sia troppo tardi
A cura di Alessia Prunecchi