Firenze, come tutte le città d’Italia, con il coronavirus e i vari lockdown è privata della maggior fonte di guadagno: il turismo. Ci siamo resi conto di come la nostra città, bellissima e splendente da tutti i punti di vista, senza i suoi cittadini e frequentatori possa sembrare tetra e fredda. Le strade del centro sono riempite da un silenzio assordante. Le azioni come: i turisti che mangiavano nei bar di piazza signoria, i ragazzi che uscivano da scuola o i lavoratori che camminavano nelle strade affollate sono state sostituite da rari cittadini che attraversano la città con sacchi della spesa, o da piccioni solitari in cerca di briciole che non troveranno mai. Il grigio delle saracinesche abbassate domina la città. L’ospedale è diventato il nuovo campo da battaglia, dove medici e infermieri lottano per far sì che il Covid non porti via i loro pazienti. La città però è stranamente colorata da delle persone, che non hanno mai smesso di pedalare e di lavorare: i riders.
Penso che tutti almeno una volta nella loro vita abbiano ordinato un “Glovo” o un “Deliveroo”, tutti sanno che dietro quel click c’è una persona pronta a “prenderlo” e a portartelo a casa. I riders sono lavoratori che hanno dovuto lottar per riuscire ad avere i diritti di un normale dipendente. Sono ritenuti lavoratori autonomi, perché decidono loro stessi il loro tempo lavorativo, per questo non godono dei trattamenti economici e retributivi propri di un rapporto di lavoro dipendente. Dal punto di vista economico la questione principale riguarda l’insicurezza e l’instabilità delle entrate, infatti i rider ricevono il pagamento solo quando svolgono effettivamente il servizio richiesto dagli utenti della piattaforma. Nel 2019 però il tribunale di Torino ha definito i rider lavoratori autonomi, ma in parole povere da trattare in modo diverso e quindi ad avere il diritto alle tutele riconosciute ai lavoratori dipendenti.
Durante la pandemia i riders sono tra le poche classi lavorative ad avere continuato a lavorare “normalmente”. Mi piace raffigurare i riders, durante il periodo Covid, come un barlume di speranza, girano per la città regalando emozioni alle nostre monotone vite che il lockdown e la pandemia ci impongono. Inoltre, con i loro zaini colorati attraversano la città, colorando il grigio di una situazione così tesa e critica. Come se fossero migliaia di lucciole in un campo arido di notte, che lo illuminano, per quanto in loro potere. Forse non ci ricordiamo di quanto poteva cambiare la nostra giornata di lockdown sapendo che la sera si ordinava “Glovo” o “Deliveroo”. Tutto questo era grazie ai riders, che non si sono fermati per la paura del Covid, anzi, hanno lavorato il doppio per permettere di regalare queste emozioni. Tuttavia, la loro professione è spesso associata ad un lavoro secondario, di minor importanza. Magari non avranno le responsabilità che può avere il presidente della BCE, ma, specialmente durante il primo lockdown, collegavano le attività alimentari, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse, ai propri clienti. Quindi in un certo modo hanno contribuito, anche nelle varie zone rosse, a non far fermare l’economia.
I riders non si sono mai fermati, hanno continuato a consegnare “emozioni” e a lavorare; eppure, ancora oggi non sono ritenuti lavoratori al pari degli altri, sono giudicati dal pregiudizio che il loro lavoro sia banale, semplice. Forse però dovremo ricordarci di che cosa hanno fatto durante il lockdown, di quanti momenti di gioia hanno regalato e di come abbiano contribuito a cercare di non far fermare l’economia.
A cura di Lorenzo Ungar