La folle Pietroburgo nella letteratura russa dell’Ottocento

  Questo articolo fa parte del numero 25 del MichePost, uscito in formato cartaceo l’8 maggio 2021


“Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol’”.

Basterebbe questa celebre frase per evidenziare l’importanza che l’autore de Le anime morte ebbe nella letteratura russa del secondo Ottocento e non solo. Lo scrittore che forse più di tutti ha tratto ispirazione da Gogol’ è proprio l’autore della frase, Fëdor Dostoevskij, che, in particolare nei suoi primi romanzi, non manca di citare estratti dalle sue opere teatrali o prendere come esempi personaggi dei suoi racconti. 

Oltre alle citazioni, Dostoevskij si lega a Gogol’ per un’opera giovanile, Il sosia, romanzo breve che riprende ambientazione, personaggi e temi già trattati dal “maestro” nei Racconti di Pietroburgo, in particolare ne Le memorie di un pazzo

Nel suo racconto Gogol’ descrive il repentino cammino nella follia di Akakij Akakievič, la cui instabilità mentale emerge chiaramente sin dalle prime pagine, quando ascolta un discorso fra due cagnette e si convince dell’esistenza di una sorta di “carteggio canino” di cui cerca di impadronirsi per conquistare la figlia del direttore, e culmina con il trasferimento al manicomio del protagonista, che, in data “43 aprile dell’anno 2000”, annota “La Spagna ha un re. È stato trovato. Quel re sono io”.

Akakij Akakievič è un misero impiegato che vive in una Pietroburgo internazionale, dinamica, piena di vita, che lo stesso Gogol’ ne Le memorie pietroburghesi descriveva così: “Pietroburgo è tutta in movimento, dagli scantinati agli abbaini, non si ferma mai; dalla mezzanotte comincia a infornare i panini alla francese, che il giorno dopo i tedeschi si mangeranno tutti, e per tutta la notte ora le si illumina un occhio ora l’altro”. Akakij Akakievič, comunque, sembra non accorgersi di tutto ciò, bloccato com’è nell’estenuante rigidità e ripetitività del suo impiego, tema che pervade i Racconti, e che sfocia nella follia. 

L’assurdità e l’ironia del racconto, a una prima lettura, suscitano semplicemente il riso, ma nascondono una denuncia all’intera società pietroburghese, così lontana dalla campagna ucraina dove Gogol’ crebbe e che, secondo Andrej Belyj, “ha fatto a pezzi Gogol’, e lui si aggrappa all’ironia come mezzo di autodifesa, in lui non domina il riso ma il terrore”.

Anche Jakov Petrovič Goljadkin, protagonista de Il sosia, vive a Pietroburgo, anche lui è innamorato della figlia (irraggiungibile) del suo superiore e anche lui, in pochi giorni, si ritrova su una vettura che ha come destinazione un manicomio; tuttavia, il protagonista e il percorso che lo porta alla follia sono molto diversi da quelli del racconto di Gogol’.

Goljadkin non è un pazzo, o meglio, il lettore viene a conoscenza del suo stato solamente alla fine, dopo essersi immedesimato con il personaggio per tutto il romanzo. Viene presentato come un insicuro consigliere titolare, uno dei gradi più bassi della gerarchia burocratica zarista, la cui bontà d’animo cozza contro l’indifferenza dei colleghi e, in particolare, col nuovo impiegato, in tutto e per tutto uguale al protagonista, ma dall’indole perfida e aggressiva, che finirà con l’umiliare il “nostro eroe”, come Dostoevskij lo chiama.

Come Le memorie di un pazzo, anche Il sosia si scaglia contro la Pietroburgo fortemente gerarchizzata, ma a differenza di Gogol’, che l’affronta quasi sorridendo, Dostoevskij la attacca con un romanzo angosciante, opprimente, come angosciante e opprimente è la vita di Akakij Akakievič e Jakov Petrovič, che terminano i propri giorni nella follia, unico modo per allontanarsi da un ordinamento che annulla i rapporti umani, dove, come nella Prospettiva Nevskij, “è tutto un inganno, è tutto un sogno, tutto non è quel che sembra”. 

Questa è la Pietroburgo di Gogol’ e di Dostoevskij, capitale del cosmopolitismo, della finzione e della follia, che così evoca, confrontandola con l’idillica campagna dove aveva trascorso la giovinezza, Ivan Petrovič, protagonista di Umiliati e Offesi: “Allora nel cielo c’era un sole così luminoso, così diverso da quello pietroburghese, e i nostri piccoli cuori battevano pieni di allegria. Allora attorno c’erano campi e boschi, e non cumuli di pietre morte, come adesso”.

A cura di Matteo Cirillo

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