Roberto Mercadini è poeta, attore teatrale e scrittore, attivo da oltre dieci anni su un canale youtube oggi seguito da oltre 130.000 persone. Il suo ultimo libro, Bomba atomica, è uscito per Rizzoli nel 2020.
Roberto, lei si definisce “poeta parlante”, e non ha mai nascosto di dar privilegio all’oralità, nella sua produzione letteraria. Perché questa scelta?
«La definizione di “poeta parlante” era anche polemica e ironica, e oggi ha meno senso. Vedevo che altra gente intorno a me scriveva poesie, cercava di pubblicarle, e quando le recitava, lo faceva in modo sciatto, svogliato, senza preoccuparsi che le persone capissero o provassero qualcosa. Nessuno spiegava le proprie poesie. Per questo io mi chiamavo “poeta parlante”, perché non mi interessavo a pubblicare le poesie, quanto a recitarle e a farle capire. Poi la cosa ha cominciato a perdere di pregnanza, perché ho scoperto di non essere l’unico a farlo.
Credo, comunque, che la vera fruizione della poesia sia quando una persona la recita a qualcuno che la ascolta. Io ho avuto un’esperienza personale che mi ha cambiato profondamente: da ragazzo non facevo che leggere e rileggere la Nuvola in pantaloni di Vladimir Majakovskij, poeta russo, una rock star della mia adolescenza, un po’ come Kurt Cobain. Quando, a sedici anni, ascoltai per la prima volta Carmelo Bene leggere la Nuvola in pantaloni, mi sono detto “Questa è la poesia”. Un po’ come se prima stessi guardando solo la foto di una persona, mentre ora ce l’avevo davanti, in carne ed ossa. Quando scrivo dei versi, per esempio, provo a recitarli, e se non suonano bene li riscrivo. Scrivo recitando, e recito scrivendo. Scrivo in funzione del recitare. Credo che capire una poesia sia capire come si recita quella poesia».
Vede, in qualche modo, l’oralità nel “futuro della poesia”? Potremmo dire il poetry slam che sostituisce la rivista di poesia…
«Io sono andato a fare il mio primo poetry slam a Torino, perché in Romagna, dove abito, non ce n’erano. Ora, di poetry slam, ce ne sono in ogni regione, in ogni città, in ogni paese (ride, ndr)! Ma non so se la poesia performativa prenderà il posto della rivista. La rivista era, ed è, autorevole. Il poetry slam ha un grande successo popolare, ma è visto con sufficienza dai cosiddetti “poeti laureati”. Il poetry slam è nato dal basso, e si sta facendo strada tra le persone comuni, e non tra gli intellettuali di mestiere. Può accadere comunque che il poetry slam si affranchi alla rivista, e che cessi certo snobismo».
In questo periodo in cui i teatri sono chiusi, com’è cambiato il suo rapporto con Youtube? Del resto, lei ha sempre dichiarato di usare Youtube come mezzo per portare gente a vederla dal vivo, su un palcoscenico.
«L’idea di Youtube come mezzo si è ampliata nel tempo, poiché ho scoperto vari altri benefici unici della piattaforma. Ad esempio, se carico su Youtube una parte di un mio monologo dove c’è un’imprecisione, anche piccola, state pur sicuri che ci sarà qualcuno che me lo farà notare; oppure, può accadere che la valanga di commenti sveli la potenzialità di un brano che avevo sempre sottovalutato. Inoltre, ho scoperto vari aspetti della psicologia umana che neanche sospettavo: le persone che attaccano per il gusto di attaccare, quelle che fraintendono frasi all’apparenza inequivocabili o che, addirittura, fanno finta di fraintendere. Essere in contatto con migliaia di persone è, quindi, un grande banco di prova e una grande opportunità».
A proposito di questo legame che lei ha sottolineato tra poesia e recitazione, trova un’analogia anche col rapporto con la musica? Per fare un esempio, lei stesso ha citato in diverse occasioni Rock Bottom.
«La poesia ha a che fare con la musica in un senso anche storico, perché la musica inizialmente accompagnava la poesia, e questo si pensa sia il motivo per cui è nato il verso con una scansione ritmica e un numero preciso di sillabe e accenti. Cantando una canzone, per esempio, i versi devono essere tutti della stessa lunghezza. Però, al di là questa origine, la poesia e la musica sono legate dal fatto che la recitazione e la musica hanno un legame: in entrambe c’è il tono, il volume della voce che si alza e si abbassa, il timbro della voce, che distingue anche i vari strumenti; e poi il ritmo, le variazioni e le pause. Tutti questi elementi fanno parte sia della musica che della recitazione, e se si intende la poesia in senso orale, l’oralità e la musica si legano, sebbene siano due campi diversi».
Questa sua ricerca dell’oralità nella poesia, intesa come costruzione artigianale di un ritmo, di una musicalità – di cui lei parla in alcuni video – sembra anche un avvicinamento alla cultura popolare.
«La fruizione orale della letteratura è sempre stata tipica degli strati bassi della società, mentre la letteratura viaggia sulla pagina scritta negli ambienti colti. La lettura è un atto solitario, l’ascolto di una recitazione è un atto di per sé collettivo. Io sono profondamente popolare. Quando io scrivo qualcosa, voglio che lo capiscano tutti. Penso a mia madre, che ha la quinta elementare, per esempio. Non voglio che, ascoltandomi, persone come lei rimangano mortificate. Per questo scrivo come scrivo. Mi sentirei a disagio a comporre poesie ermetiche: io voglio parlare con tutti. L’ideale è recitare qualcosa in maniera semplice, cosicché tutti possano capire, ma che abbia contenuti così densi di pensiero che anche una persona coltissima non ne sia annoiata».
Da informatico a poeta a tempo pieno. Nel suo caso, alla fine dei conti, il rinunciare a un posto di lavoro sicuro per dare voce alla propria parte più autentica ha funzionato: ma non aveva paura di fallire? E se fosse andata male?
«Non avevo paura. Anche se il rinunciare a un lavoro sicuro per fare l’artista può sembrare avventato fino alla demenzialità, in realtà io avevo delle garanzie sia in termini economici sia in termini umani che mi permettevano di farlo: erano già anni che guadagnavo più soldi con gli spettacoli che col mio lavoro in ufficio; e le persone intorno a me mi spingevano a fare il poeta, il teatrante, l’artista. In più, un’altra cosa mi rendeva tranquillo: io avevo capito che quella era la mia strada.
A un certo punto ho voluto guardare in faccia la realtà: l’informatico avevo imparato a farlo per guadagnarmi da vivere, ma la mia vocazione era un’altra. Cosa avrei detto a mia figlia, che aveva due anni: “Il babbo aveva del talento ma non ha avuto il coraggio di coltivarlo”? Arrivato a un certo punto, ho voluto assumermi la responsabilità della mia vocazione, del mio destino. Avevo capito che la mia strada era quella, ed ero sereno. Quando sei convinto di aver fatto la cosa giusta non c’è timore».
Ecco, lei stesso in diverse occasioni ha raccontato la storia di Dio che ordina al vecchio Abramo di lasciare casa per dirigersi verso una nuova terra, dove dovrà fondare un nuovo popolo. Ma pure le vicende di Ulisse, sotto un certo punto di vista, sono simili: sembra che la letteratura racconti che per conoscere se stessi è necessario allontanarsi da casa.
«Penso proprio che sia così. Non a caso quando Dio dice ad Abramo “Vattene (dalla tua casa)”, in ebraico è “Lech Lechà!”, alla lettera “vai a te stesso”. Capito? Vai a te stesso. Scopri chi sei. Trovati. E per farlo, allontanati da casa. Esci dai tuoi confini.
Per me, oggi, allontanarsi da casa consiste nell’imparare e nel fare cose nuove, nel tentare di capire il diverso. Ma lo è stato anche lavorare da informatico. Attenzione, però: ci vuole un equilibrio. Bisogna sperimentare, provare, fallire. Ma senza snaturarsi, senza imitare nessun’altro. Quando parlo di felicità, faccio sempre riferimento all’origine agricola del termine (“felix”, originariamente, aveva tra i suoi significati quello di “fertile”, “produttivo”; ndr). Il pero non fa le mele: il pero fa le pere! È giusto scavalcare i propri limiti, incontrare il diverso, guardare il mondo a testa all’ingiù: ma non bisogna perdersi».
Anche Ulisse, dopo vent’anni, è tornato nella sua Itaca, da dov’era partito.
«Esattamente. E ci è tornato arricchito».
Non solo la storia di Abramo. La Bibbia, in particolare l’Antico Testamento, è al centro di molti suoi video e spettacoli. Quando nasce la sua passione per la tradizione ebraica e come l’ha cambiata?
«È stato attorno al 2000. Avevo circa 22 anni e volevo guardare il mondo in modo diverso, così mi sono imbattuto in questo grande mare di sapere dove ho trovato molti elementi interessanti. Ad esempio, il continuo rovesciamento delle aspettative: Dio sceglie Abramo, 75 anni, e Sara, sterile, per fondare un nuovo popolo; sceglie il balbuziente Mosè per fare il profeta; fa sconfiggere Golia da Davide, un ragazzino. La Bibbia è anti intuitiva. C’è anche l’umorismo, non quello delle cose buffe, ma quello che nasce da uno spiazzamento. Mi ha affascinato anche l’attenzione per la parola in tutte le sue forme: il racconto, la poesia, il dialogo. Sicuramente questi ed altri aspetti della cultura ebraica mi hanno cambiato. La volontà di rovesciare le frasi fatte, mandare all’aria i luoghi comuni è nata o si è fortemente accentuata grazie alla tradizione ebraica. Inoltre, ho scoperto anche grazie alla Bibbia che, soffermandosi sulle cose, ci si rende conto che la realtà non è così banale come si credeva».
Tre (o quattro, o cinque) poeti importanti nella sua formazione, quando era ragazzo.
«Uno l’ho già citato: Majakovskij. Un altro poeta, non molto edificante, su cui sono tornato anche negli anni successivi, è Charles Bukowski. Era noto perché andava con le prostitute e giocava a cavalli, e forse da giovane mi piaceva proprio per questo suo ribellismo. Ma in realtà era uno scrittore dotato. In lui, ho trovato per la prima volta la poesia narrativa, una poesia che non deve essere per forza lirica, ma che ha un andamento prosastico. La poesia di Bukowski è l’erede della satira latina. Poi, una poetessa per me molto importante, anche se l’ho scoperta più tardi, è Wislawa Szymborska. L’ho letta moltissimo. Un altro poeta, certo lontano da me, perché è molto ermetico e involuto, ma che mi ha molto emozionato, è Dylan Thomas».
Anche in Bukowski c’è la dimensione dell’essere se stessi. Sulla sua lapide c’è scritto Don’t try, cioè non provate ad essere ciò che non siete.
«Sì, Bukowski ha questa esigenza dell’autenticità, della verità, e infatti scrive sempre di se stesso, cambiando nome ai personaggi. Bisogna essere quelli che si è, non bisogna fingere. E forse anche per questo è così coinvolgente».
Nel suo mestiere di narratore e teatrante le parole hanno il loro peso. Quali sono le parole preziose per lei adesso?
«Le parole della mia vita… sicuramente “evoluzione”. Io, dieci anni fa, ero dietro a una scrivania a fare l’impiegato e ora faccio quella che è la mia passione. Il bruco diventa farfalla, per certi versi. L’evoluzione è la meraviglia che guida la vita. È davvero una parola totem, per me, un amuleto. C’è anche “felicità”, ma nel senso che ho detto io, non “allegria”. La felicità è un impegno, è capire chi sei. E poi “conoscere”, che nel mio dialetto ha un significato più ricco di quello italiano. In romagnolo, “cnòs” vuol dire “conoscere in qualsiasi forma”, quindi anche fare esperienza, distinguere. “Conoscere” non nel senso della pura informazione, della cultura cartacea, ma del capire, del comprendere, del toccare le cose con mano. “Conoscere” è la strada per la felicità».
A cura di Tommaso Becchi, Dino Bonechi, Matteo Cirillo e Federico Spagna