Questo articolo fa parte del numero 24 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 19 febbraio 2021
Ogni anno l’Accademia Reale Svedese delle Scienze assegna a personaggi illustri il premio Nobel per la chimica: nel 2020 l’hanno vinto la biochimica statunitense Jennifer Doudna e la microbiologa francese Emmanuelle Charpentier, grazie allo sviluppo di un metodo per l’editing del genoma basato su CRISPR-Cas9. Ma la storia di tale scoperta inizia ben prima dello scorso anno, nel lontano 1987, quando il biologo giapponese Yoshizumi Ishino, sequenziando una parte del cromosoma del batterio Escherichia coli, trova delle sequenze di DNA, caratterizzate da parti ripetitive e parti spaziatrici, ora note col nome di CRISPR (acronimo inglese che sta per “brevi ripetizioni palindrome raggruppate e interspaziate in modo regolare”).
Nel 2005 lo spagnolo Francisco Mojica scopre che le sequenze spaziatrici sono identiche a quelle del DNA di virus che avevano precedentemente attaccato la cellula: ora sappiamo che il batterio immagazzina frammenti di DNA virale come difesa da infezioni (immunità adattiva). In breve tempo, anche Jennifer Doudna s’interessa alla questione e studia quale ruolo i geni Cas, situati vicino alla regione CRISPR, possano assumere nel processo. Nel 2011 la biochimica incontra Emmanuelle Charpentier, la quale si stava occupando dell’enzima Cas9, sintetizzato proprio da uno di quei geni Cas e capace di tagliare il DNA secondo istruzioni fornitegli da una molecola di RNA. Insieme, le due donne comprendono per intero il complesso procedimento su cui la comunità scientifica si stava arrovellando da anni.
Quando un batterio viene infettato da un virus e sopravvive, unisce al proprio cromosoma un frammento del DNA virale. In caso di futura infezione, il complesso CRISPR-Cas9 è capace di riconoscere l’agente patogeno e letteralmente tagliarlo a pezzi, in modo che non sia più nocivo. Tramite esperimenti sull’Escherichia coli, lo stesso batterio utilizzato all’inizio del percorso di CRISPR, viene dimostrato che il processo biochimico può essere controllato dallo scienziato in modo che elimini una sequenza specifica. Il risultato? Un modo efficace e relativamente economico di modificare il DNA, almeno quello delle cellule procariote, come i batteri utilizzati in laboratorio. Infatti, CRISPR-Cas9 non esiste nelle cellule eucariote. Jennifer Doudna e il suo collega Martin Jinek riescono, però, a inserire il complesso in delle cellule umane coltivate in vitro. L’esperimento va come previsto: il gene prescelto viene inattivato. Nello stesso periodo, Feng Jhang e George Church compiono un altro passo avanti: usano CRISPR per introdurre un nuovo gene.
Le implicazioni della scoperta sono rivoluzionarie. È ora possibile sostituire un tratto del DNA di qualunque essere vivente, in qualunque punto, con qualunque altra sequenza di nucleotidi, a seconda delle decisioni del ricercatore. Ripeto: rivoluzionario. I suoi utilizzi sono pressoché infiniti: dal campo alimentare a quello biomedico, il limite sembra essere l’immaginazione, tanto che fra gli esperti si è diffusa la cosiddetta “CRISPR craze”, un’ondata di travolgente entusiasmo per le opportunità di innovazioni future. Per citare alcuni esempi, sono stati creati dei funghi che si conservano più a lungo, inventate delle chimere per la donazione di organi interspecie, portati avanti dei progetti per l’estinzione della zanzara che trasmette la malaria. Insieme a tutte queste affascinanti possibilità, esistono, però, anche problemi di ordine morale: la clonazione è eticamente accettabile? E l’editing di spermatozoi e ovociti umani prima della fecondazione in vitro, che permetterebbe ai genitori di avere il bambino perfetto? La modifica degli embrioni? La comunità scientifica ha varie opinioni: c’è chi pensa che, per il bene della ricerca e dello sviluppo, tutto dovrebbe essere permesso, e chi, al contrario, crede che debba essere posto un limite ben preciso.
Già alcuni casi hanno creato scalpore: nel 2018, He Jiankui impianta due embrioni resistenti all’HIV in una donna, che porta a termine con successo la gravidanza; tre anni prima, Junjiu Huang tratta ben 86 embrioni con l’intenzione di curarli dalla beta talassemia (un gruppo di malattie ereditarie che interessano il sangue), ma riesce nell’impresa solo in quattro di essi, mentre tutti gli altri muoiono o subiscono mutazioni non intenzionali.
Per entrambi, la ricerca non porta frutti interamente positivi: il primo viene punito con grande severità, la pubblicazione dell’articolo del secondo viene respinta dalle principali riviste scientifiche.
Quindi, il sistema CRISPR-Cas9 è buono o cattivo? Deve essere usato o no? La risposta non può e non deve essere univoca. CRISPR è solo un mezzo: sono le ragioni per cui viene utilizzato a fare la differenza.
A cura di Elisa Salvadori