Questo articolo fa parte del numero 24 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 19 febbraio 2021
Per “Zugzwang” si intende, in termini scacchistici, una particolare situazione in cui uno dei due giocatori si trova in estrema difficoltà, poiché, qualunque mossa faccia, è costretto a subire una perdita di materiale o, peggio, lo scacco matto.
Ecco, si potrebbe riassumere così la scelta di vari social (Twitter, Facebook, Instagram su tutti)di bannare l’ex Presidente degli Stati Uniti d’America. Si tratta di una decisione doverosa, ma estremamente tardiva e che non risolve né il problema Trump né il problema populismo, anzi, ne solleva altri. Il ban è stato giustificato dai CEO come argine all’incitamento alla violenza del tycoon, che non aveva condannato in alcun modo ciò che alcuni dei suoi sostenitori avevano fatto a Capitol Hill il sei gennaio, ma, continuando a sostenere le ragioni dell’assalto, aveva consigliato loro di tornare a casa. La scelta è immediatamente finita al centro delle polemiche, poiché va a riaccendere la discussione, che in Italia già conosciamo per la querelle Casapound-Facebook, sul ruolo dei social network all’interno del dibattito pubblico: dobbiamo lasciare che questi colossi silenzino o chiudano le pagine di movimenti, partiti o personaggi politici? La risposta più immediata è sì, dato che si tratta di aziende private, con cui ogni utente stipula un contratto. È anche vero che, in questo modo, si lascia a pochi singoli la facoltà di decidere cosa mostrare su applicazioni che, data la mole di utenti, influiscono sul panorama politico internazionale.
Tra l’altro Mark Zuckerberg affermava lo scorso maggio che Facebook non doveva essere “l’arbitro della verità di ciò che la gente dice online”, proprio in riferimento a due tweet di Trump segnalati come “da verificare” da Twitter. Lo stesso sito creato da Jack Dorsey ha lasciato che l’ex Presidente scrivesse ciò che voleva fino all’otto gennaio, apponendo tutt’al più delle note di factchecking ai suoi messaggi. Insomma, è evidente che si sia trattato, da parte non solo di Facebook e Twitter, di una decisione dettata dalla convenienza. Se avessero voluto veramente rispettare i termini, i social network avrebbero chiuso gli account del tycoon già molto tempo fa, non consentendogli di condividere messaggi d’odio o fake news. E se si può lungamente discutere se siano le piattaforme stesse a dover dettare le regole del dibattito pubblico su internet o se il ban si possa addirittura definire censura, come è arrivato a sostenere il presidente messicano Lopez Obrador, è certamente preoccupante che quelle stesse regole vengano applicate a giorni alterni, a seconda che convenga o meno all’azienda. Inoltre, bannare Trump rischia di radicalizzare ulteriormente un pubblico che, come si è visto al Campidoglio, presenta frange già ben radicalizzate.
Come dimostra uno studio della Cornell University, quando un individuo viene bannato da un sito, c’è un’enorme diminuzione dell’attività, del numero di membri e della portata della community che lo segue, ma questa risulterà inevitabilmente più tossica. In ultimo, gioire per il “deplatforming” di Trump, vedendolo come un passo avanti contro il populismo che negli ultimi anni ha permeato la politica internazionale, è totalmente sbagliato. In ogni caso, l’esclusione di un profilo da una piattaforma social per incitamento alla violenza è una sconfitta per la società, e questo vale in particolare se si tratta di leader politici, poiché significa che alla base c’è un’enorme fetta della popolazione che lo ha votato, che lo supporta e che condivide le sue pericolose affermazioni.
Bannare Trump non significa combattere le cause del populismo, cercando di instaurare un dialogo con i suoi sostenitori, ma affrontarne i sintomi. I CEO delle varie piattaforme hanno troppo procrastinato e sono stati costretti ad optare non per la scelta migliore, ma per il male minore, come uno scacchista finito in Zugzwang.
A cura di Matteo Cirillo