Questo articolo fa parte del numero 23 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 30 ottobre 2020
Sto pensando di finirla qui sono le parole che Lucy (o forse il suo nome potrebbe essere Louisa, o Yvonne, o nessuno di questi) ripete ossessivamente nella sua mente, quelle infestanti e attraenti parole su cui continua a rimuginare nella speranza che, d’improvviso, acquistino il significato che sta cercando. Lei stessa non è sicura di cosa debba finire. Forse la sua vita, forse la sua storia con il nuovo fidanzato, Jake, di cui sta andando a conoscere i genitori. Arriverà alla loro casa dopo un lungo, lento viaggio tra paesaggi anonimi, cancellati dal bianco di una neve che annulla ogni cosa. Ma proprio dall’incontro con una madre e un padre sfacciati e inospitali inizierà un secondo viaggio, un’incursione verso il trascendentale dal gusto lynchiano, un tragitto sintomatico di una realtà a dir poco sconcertante. Forse si tratta di un flusso di coscienza, forse di un delirio, forse di un sogno. Forse di tutte queste cose.
Sto pensando di finirla qui porta avanti la dissertazione che Charlie Kaufman (regista e scrittore) iniziò anni fa con sceneggiature come Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee, seguite dalle struggenti storie d’amore in chiave esistenziale Se mi lasci ti cancello e Anomalisa. Il lavoro di Kaufman, infatti, si basa spesso su personaggi che tentano di liberarsi dalle loro menti o dai loro corpi per colmare il divario che li isola dalle altre persone. Alcuni ci riescono, alcuni non possono fare altro che arrendersi a esso, alcuni sprofondano nell’illusione che forse, alla fine, riusciranno a strisciare fuori dall’altra parte. Lucy e Jake (Jessie Buckley e Jesse Plemons) non fanno eccezione: durante il loro viaggio, seduti l’una accanto all’altro, parlano di tutto -di David Foster Wallace, di Mussolini, di poesia, di pittura, di cinema, di tornare a casa- ma forse non sono mai stati così lontani. Forse appartengono a mondi diversi e incompatibili. Forse la solitudine ontologica dell’essere umano non ha soluzione.
Ma, nonostante l’irrimediabile distanza che separa i due protagonisti, i loro dibattiti diventano presto asfissianti, i silenzi lancinanti e il formato in 4:3 si fa sempre più claustrofobicamente pressante, costringendo lo spettatore ad un avvolgente e al contempo respingente viaggio attraverso le primordiali paure umane; pur navigando tra diversi generi infatti, Sto pensando di finirla qui è, prima di tutto, un film sull’orrore: l’orrore della quotidianità e dell’alienazione, della solitudine e delle convenzioni sociali, della vecchiaia e della morte.
Questo complesso e variopinto rompicapo trova piena attuazione grazie anche al quartetto degli attori principali: attraverso gli occhi di Jessie Buckley avvertiamo lo straniamento, il lento sollecitare di un’angoscia silente che esplode nei repentini sbalzi d’umore di Jesse Plemons. Toni Collette e David Thewlis interpretano dei genitori dal ghigno insolente e grottesco, inquietanti pur senza fare niente di spaventoso; prima anziani, poi giovani, subito dopo in fin di vita, i due sono l’emblema dell’alone di morte che permea l’intero film. Forse l’idea di mortalità, di fine e di annientamento non appartiene solo a Lucy, ma a tutti, anche a quell’anziano bidello di un liceo, che ci viene mostrato in un acutissimo e scrupoloso montaggio mentre osserva le nuove generazioni crescere, sognare e umiliare gli altri.
Avido osservatore della contraddizione umana, Charlie Kaufman ci regala un nuovo tassello del suo mondo interiore: una complessa opera artistica che raccoglie tutte le angosce, i drammi, le gioie e le inquietudini di vite che non conosciamo, ma di cui potremmo anche essere protagonisti. Ci parla della prima volta che abbiamo avuto paura di non essere all’altezza, dei sogni che non abbiamo avuto il coraggio di sognare, del rimpianto di aver lasciato che altri decidessero della nostra vita, facendo un bilancio di tutte le scelte che abbiamo compiuto e di quelle che ancora ci rimangono da compiere.
A cura di Bianca Formichi