Questo articolo fa parte del numero 23 del MichePost, uscito in formato cartaceo il 30 ottobre 2020
Un clic, è incredibile quante cose si possano fare con un clic. Nella società attuale, grazie ai social media, tutto è a portata di clic: condividere un’informazione, ritrovare vecchie conoscenze, mantenerci vicini anche quando a separarci è un oceano. Fantastico? No, non è tutto oro quel che luccica. Dietro all’avvento di queste tecnologie c’è un meccanismo complesso e pericoloso basato sull’economia dell’attenzione, le cui possibili conseguenze future sulla società sono allarmanti.
I social media guadagnano miliardi di dollari tenendoci incollati allo schermo. Selezionano contenuti che catturino la nostra attenzione in base ai nostri interessi, manipolando così il nostro modo di pensare, il nostro comportamento. Come sottolinea l’informatico Jaron Leiner nel documentario di Netflix “The social dilemma”, “il prodotto non siamo noi, è la possibilità che le piattaforme hanno di cambiare il nostro comportamento”. I social media si appropriano del nostro tempo, fanno leva sulle vulnerabilità della mente umana, facilmente influenzabile e manipolabile. I primi ad essere consapevoli del grande danno che l’avvento di tali tecnologie sta infliggendo alla società sono i leader tecnologici e gli informatici della Silicon Valley che hanno preso parte in prima persona alla programmazione di queste app e piattaforme. Alcuni di loro non permettono ai propri figli di utilizzarle. Tra questi Tristan Harris, laureato in etica della persuasione a Stanford ed ex designer di Google, nel 2018 ha fondato, insieme ad Aza Raskin, il Center for Human Technology, un’associazione senza scopo di lucro e indipendente il cui obiettivo è informare le persone comuni dei pericoli dei social e mobilitare i leader politici e tecnologici al fine di creare una tecnologia “veramente umana” che metta al primo posto le persone e non gli interessi economici.
Molti credono che i social media siano neutrali, e non c’è niente di più sbagliato. I social media ci offrono contenuti che già approviamo e condividiamo in modo tale da farci stare online più tempo possibile. C’è una vera e propria competizione per accaparrarsi la nostra attenzione e venderla agli inserzionisti traendone profitto; è a questo scopo che gli algoritmi selezionano contenuti che potremmo potenzialmente trovare interessanti. Questo meccanismo si basa sul modello dell’economia dell’attenzione di cui parlò per la prima volta il premio Nobel Harbert Simon nel 1971. Tutto ciò ha conseguenze allarmanti sulla società. Le continue interruzioni provocate dalla tecnologia riducono notevolmente la capacità di concentrazione degli esseri umani: basti pensare che la sola presenza del cellulare sulla scrivania, anche se spento, riduce notevolmente la soglia di attenzione. Provate voi stessi a tentare di concentrarvi col cellulare acceso al vostro fianco e osservate quanto dura la vostra concentrazione prima di avere l’impulso di utilizzarlo. Anche la capacità di pensiero è minata da tali interruzioni, ma non solo, dato che attualmente sono sempre di più le app e le piattaforme di social media che competono per la nostra attenzione, le capacità umane di base, come la memoria, sono esposte a seri rischi che si traducono inevitabilmente in un degrado di massa. Purtroppo però queste non sono le uniche conseguenze negative dell’avvento dei social media. Basti pensare che su di essi le notizie false si diffondono sei volte più velocemente di quelle vere, un chiaro esempio di ciò può essere l’esorbitante quantità di fake-news diffusesi dall’inizio della pandemia. Ciò è dovuto principalmente a due fattori: il primo è che generalmente le notizie false sono emotivamente più coinvolgenti rispetto alle altre, essendo infatti dominate dalla rabbia e dell’indignazione, i sentimenti che viaggiano più velocemente sul web; in secondo luogo gli utenti spesso condividono informazioni senza attestarne l’attendibilità semplicemente perché il post era già stato condiviso da molte altre persone. C’è poi da sottolineare che i social media esercitano una grandissima influenza sui risultati delle elezioni politiche, facilmente manipolabili tramite questi mezzi che, amplificando i contenuti più coinvolgenti, finiscono per diffondere informazioni polarizzanti e idee politiche estreme opprimendo ulteriormente le minoranze e facendo aumentare le discriminazioni legate al razzismo, al sessismo e all’omofobia, per citarne alcune. Inoltre, per quanto tenere in contatto le persone possa essere uno dei loro maggiori pregi, quando effettivamente ci troviamo in compagnia i social media si trasformano in un vero e proprio abisso che ci divide. La sola presenza di un cellulare può interrompere la connessione tra due persone riducendo il senso di empatia, fiducia e vicinanza. Quando vogliamo evitare qualcuno scorrere post su Instagram può essere un ottimo scudo, ma forse dovremmo rivalutare quest’abitudine quando siamo in compagnia degli amici.
Oltre a ciò, secondo uno studio dell’Università della Pennsylvania diretto dalla psicologa Melissa G. Hunt e basato su 143 studenti universitari, il tempo trascorso sui social incrementa il senso di solitudine e di depressione che, tra le ragazze tra i tredici e i diciotto anni, è aumentato del 65% tra il 2010 e il 2017, come del resto il tasso di suicidi. Tra gli studenti coinvolti nello studio, quelli che soffrivano maggiormente di sintomi depressivi quando selezionati, a seguito dell’allontanamento dai social media avrebbero dimostrato una notevole diminuzione della depressione. Secondo la dott.ssa Hunt ciò è legato alla cessazione dei continui paragoni tra la propria vita e gli standard irreali che vengono mostrati sui social. L’uso sbagliato di queste tecnologie e servizi, che da molti punti di vista hanno indubbiamente migliorato le nostre vite, sta provocando inaspettate distorsioni nella società, che si è trovata impreparata a questo esponenziale cambiamento. Le società tecnologiche mettono al primo posto il profitto e questo lo fanno a spese degli utenti che si trovano ad essere inconsapevolmente schiavi dell’economia dell’attenzione.
A cura di Alessia Prunecchi