L’istruzione sotto le macerie

Migliaia di studenti quest’anno hanno cominciato le medie, il liceo o l’università, migliaia di bambini sono stati accompagnati a scuola per la prima volta e hanno iniziato un lungo percorso, entrando in una realtà che li vedrà crescere, fare amicizie e diventare prima adolescenti, e poi giovani adulti. Un percorso pieno, senza dubbio faticoso e difficile, ma necessario per imparare a relazionarsi con altre persone, a conoscere e apprezzare sé stessi, per imparare a ragionare e fare valere le proprie opinioni. La scuola è infatti uno spazio dedicato allo studio e all’apprendimento, ma questo aspetto è senza dubbio accostato in una condizione si ne qua non, ad incontri, amicizie, delusioni e grandi soddisfazioni.

Tutto questo a Gaza è stato distrutto.

È stato distrutto il 90% degli edifici scolastici governativi, sono state distrutte o danneggiate dodici università, tutte le dodici università degli studenti e studentesse palestinesi.

Sono state distrutte le case, uccisi parenti e amici, devastata la sicurezza e la quotidianità di un intero popolo. Sono stati trentanovemila gli studenti a non potersi diplomare l’anno scorso, seicentoventicinquemila quelli che quest’anno non hanno potuto avere un primo giorno di scuola, poiché privati di un diritto imprescindibile, quello all’istruzione.

Seicentoventicinquemila. Scrivo a parole questo numero perché voglio che chi lo legge, facendolo lettera per lettera, possa realizzarne la grandezza e comprendere che quell’enormità di numeri che contiene, non sono solo cifre che leggiamo sui giornali, ma persone, studenti, bambini.

L’ONU dichiara che, nei primi sei mesi del conflitto, 261 insegnanti e 95 professori universitari sono stati uccisi, nel corso di quest’anno si sono verificati moltissimi attacchi israeliani che hanno colpito le scuole, molte delle quali adibite a rifugi, come quella di Khadijah a Deir al-Batah, rifugio per 4000 persone, dove per via dell’attacco sono andati distrutti un centro medico, un luogo di preghiera e la scuola elementare di Beit Hanoum.

L’occupazione di Gaza, cominciata ormai da più di un anno, ma che sappiamo affondare radici in tempi ben più lontani, costituisce ad oggi una terribile e spaventosa minaccia per lo sviluppo sociale, cognitivo ed emotivo dei bambini palestinesi, colpiti dalla frustrazione; intesa come l’incapacità di controllare o gestire ciò che accade nella realtà circostante, sensazione effetto e, contemporaneamente, causa di problemi

che ricadono sulla salute mentale e psicologica.

Ma sono solo bambini, e in quanto tali dovrebbero salutare i loro genitori all’entrata di scuola, non ritrovarne i pezzi a seguito di un bombardamento o riconoscerne il corpo senza vita, non dal viso, sfregiato da una violenza che è indifferente al male che provoca, ma dai capelli o da altri piccoli dettagli nell’aspetto di ciò che rimane dei loro genitori.

E allora, mi chiedo, cos’è che rimane? Cosa resta impigliato nei ricordi e nei cuori di bambini e ragazzi che vedono la morte in faccia, mentre abbraccia i loro parenti e i loro amici, portandoglieli via per sempre, senza annunciare il proprio arrivo, senza concedere un addio? Una morte preceduta dal più logorante e confusionale dei sentimenti, la paura.

Non c’è giustizia, non c’è coerenza. Non c’è spiegazione che chi assiste a una tale devastazione possa trovare. Qual è lo scopo di tutto questo? Cos’è che rimane?

A cura di Sofia Riondino

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