Biografia dell’elettromagnetismo

Accetto la scommessa di scrivere la storia romanzata dell’elettromagnetismo. 

Il genere biografico, potremmo dire da Senofonte in poi, dà per assodata la conoscenza, nel lettore, dell’oggetto biografato. C’è un “per antonomasia” sottinteso. Qui non si darà niente per scontato, ma si proverà comunque a ricostruire la vita di questo campo di studi.

Prima di fondersi in un’unica parola, il fenomeno elettrico e quello magnetico sono osservati separatamente. Se ne ha contezza fin dall’antichità. Platone è una fonte preziosa, quando nello Ione (533d – 534a) descrive la potenza attrattiva della poesia:

Non è arte parlar bene su Omero da parte tua, come ora dicevo, ma è arte una forza divina che ti muove, come quella che è nella pietra che Euripide chiama magnete e i più chiamano eraclia. Quella stessa pietra non solo fa muovere gli anelli di ferro, ma immette negli anelli una forza, in modo che può ripetersi lo stesso fenomeno che la pietra ha causato: mettere in moto altri anelli, tanto che talvolta una lunga serie di pezzi di ferro e anelli stanno connessi l’uno all’altro. Ma per tutti questi la forza trasmessa dipende da quella pietra. Così anche la Musa stessa rende ispirati e poi attraverso questi ispirati si connette una serie di altri che vengon presi dall’ispirazione.

Lucrezio, pur poeta di professione, analizza il magnete in sé, senza farne il referente di un’analogia. Nel De rerum natura, con un’immagine analoga a quella di Platone, si legge che “Gli uomini osservano pieni di ammirazione questa pietra / la quale può formare una piccola catena di anelli che pendono” (VI, vv. 910-911), pietra che “i Greci chiamano ‘magnete’ dal nome della sua patria” (VI, v. 907; si riteneva che questa pietra prodigiosa provenisse dalla Magnesia, l’affaccio sull’Egeo della Tessaglia). Lucrezio si spiega il fenomeno magnetico con “una vera e propria corrente / che squarcia con i propri urti l’aria situata tra la pietra e il ferro” (VI, vv. 1003-1004): perciò, il potere della pietra, rimossa la sostanza d’aria che si interponeva, attrae a sé il ferro. Ma, “può anche succedere” – prosegue Lucrezio – “che la natura del ferro si allontani / da questa pietra per un ciclo naturale di attrazione e repulsione” (VI, vv. 1042-1043); oggi lo sappiamo, sono i poli opposti che si attraggono. Questa repulsione, quasi richiamandosi alle forze cosmiche di Empedocle, Lucrezio la chiama discordia (VI, v. 1048). Sempre nel VI libro del De rerum natura, Lucrezio fa osservazioni anche su un fenomeno elettrico in particolare, il fulmine, che sottrae al patrocinio fittizio di Giove e restituisce all’ambito dei fenomeni naturali. Ma l’indagine – che comunque descrive il fulmine come un fuoco sottilissimo, e non come scarica elettrica, che “riesce a insinuarsi e a penetrare nei vuoti di ogni fessura” (VI, v. 332) – non può per ora avventurarsi sulle connessioni tra magnetismo ed elettricità. Solo Platone li aveva accostati, nel Timeo (80b-80c), come manifestazioni di oggetti fisici in movimento: 

Si spiegano così lo scorrere delle acque, la caduta dei fulmini, e la meravigliosa forza d’attrazione dell’ambra [in greco ἤλεκτρον] e della calamita: in nessuno di tutti questi oggetti vi è la forza attraente, ma poiché il vuoto non c’è, questi corpi si respingono in giro l’uno con l’altro, e separandosi e congiungendosi, cambiano di posto, e vanno ciascuno nella propria sede.

La metafora del magnete, invece, ha una lunga fortuna. Alla corte di Federico II, Pier della Vigna risponde così alla sollecitazione del falconiere di corte Jacopo Mostacci di definire la natura dell’amore (una sorta di quaestio in forma di poesia):

Però c’Amore no si pò vedere

e no si tratta corporalemente,

manti ne son di sì folle sapere

che credeno c’Amor[e] sia nïente.

[…]

Per la vertute de la calamita

como lo ferro at[i]ra no si vede,

ma sì lo tira signorevolmente;

e questa cosa a credere mi ’nvita

c’Amore sia, e dàmi grande fede

che tutor sia creduto fra la gente.

Nel Medioevo, sono molto diffusi i lapidari, trattati sulle proprietà prodigiose delle pietre. Accanto alle pure fantasie, come l’elitropia di Calandrino, si possono trovare descrizioni di fenomeni magnetici, che tanto ispirano i poeti del tempo; uno su tutti, l’erudito bolognese Guinizzelli, che nella canzone Al cor gentil rempaira sempre amore passa in rassegna le proprietà benefiche delle pietre, e che nella canzone Madonna, il fino amor ched eo vo porto parla dei “monti de la calamita, / che dàn vertud’ all’aire / di trar lo ferro” (vv. 50-52), in modo da “farl’ adoperare, / che si dirizzi l’ago ver’ la stella” (vv. 54-55). Sono del resto gli anni del XIII sec. in cui in Europa cominciano ad arrivare le prime bussole dall’oriente. Cristoforo Colombo, nel suo viaggio verso le Indie, proprio grazie alla bussola è in grado di osservare la declinazione magnetica, vale a dire lo dinamicità del polo nord magnetico e il conseguente spostamento dell’ago di ferro, col rischio di sviare dalla giusta rotta.

In epoca moderna, grazie all’imporsi del meccanicismo e del metodo sperimentale, gli scienziati sono in grado di osservare i fenomeni elettrici e magnetici con risultati pratici mai conseguiti prima d’ora: Stephen Gray studia la conducibilità dei corpi (1729), Benjamin Franklin inventa il parafulmine (1752), Alessandro Volta costruisce la prima pila (1799). Il matematico Carl Friedrich Gauss e l’esploratore Alexander von Humboldt si dedicano, contemporaneamente, allo studio del campo magnetico terrestre. Lo stesso von Humboldt, con un’affermazione romanticheggiante, pone le basi per l’ammissibilità dell’elettromagnetismo: “Tutto è interazione” (da una nota del 1 agosto 1803 dei Diari del viaggio americano). Questa attenzione di scienziati e di inventori per le forze invisibili che regolano il mondo suggestiona una filosofia già incerta, dopo Kant, del proprio statuto: Schelling, nel dipolo magnetico, vede la complementarità degli opposti che regola l’universo, così come nelle cariche elettriche trova sostanziata la polarità dialettica dell’Assoluto. 

Nello stesso Ottocento della natura romantica, si arriva a delle conclusioni. Il fisico danese Hans Christian Oersted, nel 1820, scopre che un filo percorso da corrente elettrica genera attorno a sé un campo magnetico. Un anno dopo, Michael Faraday si domanda se valga anche viceversa, cioè se un campo magnetico possa generare un campo elettrico. La risposta è sì: Faraday scopre che un campo magnetico variabile genera un campo elettrico. I due fenomeni risultano dunque, per la prima volta, interconnessi. Negli anni seguenti André-Maria Ampère approfondisce questa relazione con fondamentali studi (su tutti, la legge di Ampère del 1826). Sarà James Clerk Maxwell, nel 1865, a riassumere le conclusioni sull’elettromagnetismo a cui si era giunti negli ultimi trent’anni nella forma delle famose quattro equazioni.

È lo stesso Maxwell che intuisce l’esistenza delle onde elettromagnetiche. Il campo di studi dell’elettromagnetismo è solo all’inizio; avrà grandi conseguenze sulla fisica e sugli avanzamenti tecnici del Novecento, e le sue implicazioni si trovano contenute nelle radio, nelle televisioni, nelle radiografie, nei radar, nei cellulari.

A cura di Federico Spagna

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