Era il 15 ottobre 2009 quando un ragazzo di Roma, Stefano Cucchi, è stato arrestato dopo esser stato trovato in possesso di 20g hashish e di alcune pasticche che prendeva per l’epilessia. Una settimana dopo, lo stesso ragazzo, Stefano, quel trentunenne che parlava con un tipico accento romano, è morto.
Il film Sulla mia pelle, uscito in Italia il 12 settembre 2018, racconta l’ultima settimana di vita di Stefano e lo fa mediante una ricostruzione lucida dei fatti. Si tratta di una documentazione senza alcun giudizio, commento o commiserazione della vittima, perché i fatti parlano da sé: un ragazzo è morto sotto gli occhi di un intero paese. Niente da aggiungere. Un vero e proprio percorso in discesa che si concluderà nel peggiore dei modi, con la morte.
Questo film è un capolavoro. Non lo definirei ‘bello’, perché associare il concetto di bellezza a tali scene e vicende stride decisamente. Per quanto riguarda l’attore protagonista, Alessandro Borghi, credo che sia stato veramente all’altezza di un ruolo non affatto semplice. Questi infatti ha dovuto perdere diciotto chili e gli è stato necessario un supporto psicologico durante la produzione della pellicola.
La tensione è alta, dall’inizio. Quasi si riesce a percepire il battito del cuore di Stefano quando i carabinieri si avvicinano a lui bussando al finestrino, o il respiro soffocato dal dolore dei lividi. Non altro, per quanto riguarda le sensazioni che potrebbe aver provato Cucchi, perché non ho la presunzione di affermare di “aver sentito quel dolore come se fosse stato sulla mia pelle”. Un’ora e quaranta seduta comodamente sul divano non fanno apparire i lividi sulla faccia. E non uccidono. Ma una stretta allo stomaco si sente, eccome. Del resto, è veramente impossibile non rimanere scossə ed emozionatə nel vedere quelle scene, nell’immaginare la paura, il senso di solitudine ed abbandono che Stefano ha provato.
Potrei definirlo come uno dei film più violenti che abbia mai visto, eppure scene di violenza non ce ne sono, ma i lividi parlano da soli, i respiri di affanno, la sensazione di freddo percepibile sin dall’inizio, quelle immagini di vuoto che scavano dentro.
Si percepisce a primo impatto quel velo di omertà, eppure il film non parla né di Cosa nostra, né di ‘ndrangheta, né di camorra. A proposito di camorra, mi viene quasi naturale riutilizzare le parole di Roberto Saviano usate per parlarne. Anziché “il mostro” o “la piovra”, come scriveva Luigi Garlando nel suo romanzo Per questo mi chiamo Giovanni, alludendo a un disegno affisso all’albero Falcone, qui troviamo carabinieri che affermano: “Magari morisse, li mortacci sua”. Quando Saviano parla di indifferenza, adesso è la stessa mostrata da chi, dinanzi quel viso straziato dal dolore, quel corpo eccessivamente magro, dice: “Ah, facciano loro, non è la mia causa”. O del tribunale che, troppo preoccupato di sapere se Cucchi fosse nato nel ’68 o nel ’78, ignora, come se niente fosse, le sue condizioni, che persino non guardandolo sarebbe stato facile comprendere dal tono della voce usato per pronunciare quelle fiacche parole: “’78, scusi, non riesco a parlare tanto bene”. Per non parlare dei medici che, scocciati, rinunciano a prestare servizi sanitari al primo rifiuto di Cucchi, un paziente evidentemente incapace di prendere una qualsiasi decisione: “Scrivi che il paziente rifiuta la visita”.
Alla luce di ciò, è evidente che “la piovra” che soffoca l’Italia non è solo la mafia bensì anche quei servizi d’ordine che dovrebbero tutelare, non uccidere. Quei letti di ospedali dove dovremmo trovare sollievo dai dolori, non la morte. Una giustizia che ha aspettato tredici anni prima di condannare per omicidio preterintenzionale (a dodici anni di reclusione) due carabinieri, grazie alle continue lotte della sorella Ilaria Cucchi, la quale ha lottato fino alla fine, tuttavia questo non le farà mai riavere indietro suo fratello.
A cura di Antonia Marchis