Le parole hanno un peso. E l’attuale governo Meloni lo sa bene. In quest’ottica, accostare il termine ‘merito’ a ‘istruzione (un tempo ‘pubblica’ ) non è casuale.
Ma facciamo un passo indietro. Il termine ‘meritocrazia’ è entrato nel lessico politico nel 1958 con il testo The rise of the meritocracy del sociologo e attivista laburista britannico Michael Young, che ha presentato satiricamente lo scenario di un futuro distopico, un 2033 in cui la meritocrazia fa da padrona: scientificamente e rigorosamente misurati, quoziente intellettivo ed impegno sono alla base di questa società, che però è tutt’altro che democratica. Si configurano, infatti, due classi sociali ancora più separate, nascono disuguaglianze sempre più marcate, e dunque esplodono numerosi conflitti sociali. Il concetto di merito, la deriva di un ideale di economia liberalizzata e capitalistica, è una delle tendenze più invocate anche del nostro tempo, come Young aveva sinistramente predetto. Ma la domanda che bisogna porsi è la seguente: come si può parlare di merito in un paese in cui esistono profonde differenze tra le opportunità nei vari territori, in cui essere nato al sud o al nord, in provincia o in centro città determina sensibilmente le possibilità di ciascuno di noi? Già sessanta anni fa Don Milani diceva che «non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali fra disuguali». E probabilmente ci aveva capito più di tutti noi. La scuola del merito è fallace, trasmigra (di nuovo) nella sua spregevole forma di scuola di classe. Essa investe sui figli di famiglie più ricche o più colte (magari con biblioteche sconfinate in casa), mentre lascia indietro chi viene da contesti disagiati o popolari. Meritocrazia al potere significa cioè fissare un punto di arrivo senza determinare prima un punto di partenza eguale (questo sì) per tutti e tutte. Questo tipo di scuola non è la scuola della Costituzione, quella delle pari opportunità, non fornisce alla totalità delle studentesse e degli studenti la possibilità di migliorare la propria condizione, perde la funzione di ascensore sociale ed inizia a riprodurre le disuguaglianze profondamente presenti all’interno della società. Ecco che la retorica del merito è molto pericolosa ed il merito finisce per diventare – in senso deteriore – la famiglia in cui si nasce, le condizioni socio-economiche di partenza o il livello di istruzione dei genitori. Il problema non è tanto (magari fosse solo questo!), come è stato scritto da altri in questa sede, l’impossibilità per alcuni studenti di pagare le ripetizioni di greco e di latino, ma è più fondamentalmente ed essenzialmente radicato.
In realtà, qui non si sta cercando di criticare il merito di per se stesso: la questione nodale – e più spinosa – sta nella società in cui si cerca di mettere in pratica la meritocrazia. Il nostro è un mondo in cui la ricchezza va sempre più polarizzandosi, un mondo in cui la forbice tra ricchi e poveri si sta sempre più vertiginosamente ampliando. In una società diseguale, insomma, il merito non è solo un’utopia, ma anche un’ingiustizia.
Forse però c’è qualcosa di ancora più grave. Parlare di scuola del merito rischia addirittura di dare di più a chi già in partenza ha di più. I finanziamenti in un sistema di istruzione e merito finirebbero nelle scuole della cosiddetta ‘eccellenza’, come il Michelangiolo, e non alle scuole più in difficoltà, quelle di provincia, gli indirizzi professionalizzanti. L’idea che l’unico investimento che valga la pena fare sia quello sulle cosiddette ‘eccellenze’ è un’idea non solo ingiusta ma anche antidemocratica. La nostra scuola, una scuola delle pari opportunità, dovrebbe investire su tutti i ragazzi e su tutte le ragazze, ed ancora di più su chi parte da situazioni di svantaggio, evitando pericolose retoriche sulla meritocrazia.
A cura di Lapo Albizi