Il 25 settembre si sta vertiginosamente avvicinando e con esso il tanto atteso giorno in cui l’Italia, ad oggi un paese stanco e arrabbiato, complici il caro energia, la guerra in Ucraina e la memoria ben vivida di due anni trascorsi tra mascherine e restrizioni, si troverà alle urne a dover votare chi governerà per i prossimi cinque anni. Tra candidati opinabili e discutibili valzer tra partiti, il copione di tale evento, malgrado pandemia e sconvolgimenti di vario genere, non si differenzia molto da quello degli anni passati. Così, come di default, si ripropone anche il tema di una donna alla guida del Consiglio dei Ministri. Sono passati, del resto, oltre trent’anni da quando Nilde Iotti sostenne che erano “maturi i tempi per una donna al Quirinale”. Da allora, tuttavia, di donne non ce ne sono state, né al Quirinale né, tantomeno, a Palazzo Chigi.
Un dato indubbiamente grave, emblema di un intero sistema sociale saldamente fondato sulla struttura patriarcale e intriso di pregiudizi nel quale le donne non partono dallo stesso punto degli uomini e per le quali talvolta è assolutamente inimmaginabile raggiungere pari traguardi.
Tutto questo gran chiacchiericcio su una donna presidente del Consiglio, tuttavia, mette in luce anche l’altro lato della medaglia. Il lato oscuro, per così dire, quello che nella maggior parte dei casi si preferisce ignorare: il lato scomodo della faccenda. Se da una parte, infatti, è assolutamente ingiustificabile che nel corso degli anni si siano avvicendati soltanto presidenti del Consiglio uomini, dall’altro è allo stesso modo intollerabile e dannoso anzitutto per le donne il fatto che molto spesso la questione di genere venga anteposta al merito e che si parta dal presupposto che, purché si tratti di una donna, qualunque candidato vada bene.
Mi spiego meglio.
Quando una qualsiasi donna, più o meno meritevole, raggiunge una posizione di potere, ben pochi sono i titoli di giornali che mettano in evidenza i suoi titoli di studio, le sue passate esperienze, la sua storia. Tutti si concentrano, infatti, almeno in un primo momento, su un solo e unico dato, ossia che il soggetto in questione è donna. Come se il genere fosse un marchio di infamia da cui è impossibile liberarsi e l’essere donna un qualcosa che rende più legittimo, più “giusto” agli occhi dell’opinione pubblica il raggiungimento di un traguardo. Inutile dire che il medesimo trattamento rivolto ad un uomo risulterebbe alquanto comico e rasenterebbe il ridicolo.
Finché ciò accadrà, per quanti saranno i tetti di cristallo sfondati e i passi in avanti compiuti, non esisterà alcuna vera parità di genere. Una parità reale e fattuale, non solo di forma, ma anche, e soprattutto, di sostanza: un vero e proprio nuovo modo di pensare e concepire tale questione.
Fino a quando ci sarà bisogno delle quote rosa per avere delle donne in Parlamento; fino a quando si invocherà a “una donna” presidente del Consiglio, in maniera generica e non meglio definita (come se avere delle ovaie fosse sufficiente per governare un paese), la strada sarà ancora lunga. E con questo non voglio in alcun modo insinuare che le donne che raggiungono posizioni di potere siano inadeguate né, tantomeno, che i loro colleghi uomini siano sempre meritevoli, tutt’altro. Si tratta semplicemente di una riflessione, amara, sul fatto che quella che ad oggi ci viene presentata come parità di genere non è altro che un surrogato di quest’ultima, plasmato da una narrazione sbagliata e distorta della realtà: una dolce illusione si spera un giorno destinata a dissolversi.
A cura di Alessia Prunecchi