Questo articolo fa parte del numero 25 del MichePost, uscito in formato cartaceo l’8 maggio 2021
Presentato in anteprima mondiale alla scorsa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Nomadland ha iniziato un cammino costellato di prestigiosi riconoscimenti, recentemente culminato nella notte degli Oscar.
La pellicola ha infatti prevalso in tre delle principali categorie: miglior film, miglior attrice per Frances McDormand, alla sua terza statuetta da protagonista, e miglior regia per Chloé Zhao, che è entrata nella storia come seconda regista donna ad essere insignita di questo premio (la prima era stata Kathryn Bigelow per il suo The Hurt Locker, nel 2010).
Tratto da Nomadland-un racconto di inchiesta, della giornalista Jessica Bruder, il film racconta un’America nascosta e devastata dalla Grande Recessione, una terra di nomadi costantemente in cammino, che trovano nell’umanità condivisa la forza per andare avanti.
In mezzo a questi nomadi c’è Fern, una donna di sessant’anni senzatetto, ma non senza casa (come lei stessa si definisce all’inizio del film: “I’m not homeless, I’m just houseless”), che, dopo aver perso il marito e il lavoro, lascia la città natale per attraversare gli Stati Uniti occidentali a bordo del suo furgone.
Fern procede per la sua strada da sola, senza cercare alcun aiuto, ma rimanendo costantemente stupita tanto dalle bellezze naturali che la circondano, quanto dal calore e dalla generosità dei nomadi che incontra durante il viaggio, sempre in cerca di qualcosa o in fuga da tutt’altro.
Sulle malinconiche note di Oltremare di Ludovico Einaudi, la regia di Chloé Zhao esplode silenziosa, tra i primissimi piani di Fern, che indagano la geografia di un volto impietosamente segnato dalle difficoltà della vita, e il vuoto soffocante degli interminabili paesaggi statunitensi, delle nuvole bianche del Nevada e della sabbia rossa delle Badlands.
La denuncia sociale di Nomadland è evidente, seppur sottile: alle dolorose storie dei nomadi, che lottano contro un sistema ormai prostrato e fondato sulla disuguaglianza, si contrappongono i silenzi, espressione degli implacabili drammi di uomini e donne abbandonati dalla società, come mezzi industriali ormai inutilizzati.
La dolente Fern è la sintesi stessa di una società produttiva spinta ben oltre i suoi limiti, che prova a cercare una nuova coesione tra i valori universali e ancestrali, tornando sulle rotte migratorie tracciate dalla disperazione della Grande Depressione.
Parallelamente alla critica nei confronti delle contemporanee contraddizioni americane, però, il film segue anche una seconda strada, più poetica e romantica: forse quella che ci viene raccontata non è la fine del sogno americano, ma una sua naturale evoluzione, che trasforma un semplice gruppo di senzatetto in nuovi pionieri alla ricerca di una felicità e di una realizzazione personale che differiscono da quelle che la società vuole imporre.
Nomadland si erge infatti a lirica sulle voci perdute dell’America, sui nuovi invisibili che hanno fatto della perdita del posto di lavoro e dell’assenza di punti di riferimento il meglio che potevano, interpretando la mancanza di legami come libertà assoluta; sui nomadi che nel loro vagare non sono perduti, ma anzi, a contatto con la natura e lontani da un sistema sempre più avvelenato dal profitto, hanno trovato un senso più sottile, un’increspatura tra le cose quasi impossibile da vedere.
La pellicola diventa così un inno alla vita, anche se camminare tra i ricordi sembra la cosa più difficile, anche se il mondo dirà che tutto si butta e tutto si scorda, perché, alla fine, rimane solo una cosa da dire: “Ci vediamo lungo la strada”.
A cura di Bianca Formichi