Cinema | Fino all’ultimo respiro, di Jean-Luc Godard

Alla fine degli anni Cinquanta, in una Francia segnata dai contrasti della guerra d’Algeria e dalle inquietudini della Guerra Fredda, un forte vento di rinascita e rinnovamento si faceva sentire in ogni ambito, anche nel cinema.

Si andava lentamente imponendo un nuovo e giovane pubblico che, assuefatto dai film di Hollywood che invadevano le sale all’epoca, avvertiva il bisogno di una rottura con gli schemi classici, a favore di un cinema sincero che lo facesse riflettere.

La rivoluzione arrivò per mano dei cosiddetti “giovani turchi”, cinefili cresciuti alla scuola di André Bazin e confluiti nei famosi Cahiers du Cinéma. Tra loro François Truffaut, Jean-Luc Godard, Éric Rohmer e Claude Chabrol, tutti critici che ben presto esordirono alla regia. Nacque così la Nouvelle Vague, una generazione, così come definita da Truffaut, “di cineasti che hanno deciso di fare film dopo aver visto Quarto Potere”.

Manifesto di questa nuova corrente, per la regia di Jean-Luc Godard, il soggetto di François Truffaut e la supervisione di Claude Chabrol, Fino all’ultimo respiro (1960) realizza quanto i nuovi registi avevano sostenuto nei Cahiers du Cinema: la volontà di superare il cinema classico francese di Carné e Duvivier per confrontarsi, attraverso nuove modalità, con grandi autori americani come Hitchcock e Hawks.

Ispirato ad un fatto di cronaca verificatosi in Francia negli anni Cinquanta, il film ha per protagonista Michel (interpretato da Paul Belmondo, al tempo pressoché sconosciuto), un piccolo delinquente che imita le movenze di Humphrey Bogart e vive di espedienti e furti. Dopo una serie di crimini, la sua fuga lo conduce a Parigi, dove rincontra Patricia (Jean Seberg), una studentessa americana di cui è innamorato e che vorrebbe portare con sé a Roma.

Assieme i due giovani litigano, discutono e si amano, mentre sono chiamati a confrontarsi con problematiche legate al ruolo che rivestono all’interno di una società da cui si sentono distanti, rivelando così la loro visione del mondo: un tipo di anarchia nervosa, che scava nelle ambiguità della gioventù francese dell’epoca.

Nella pellicola sono facilmente individuabili l’influenza dell’esperienza neorealista italiana, che con la sua ricerca di verità cominciò a scardinare i canoni della rigida grammatica filmica imperante, e, caratteristica fondamentale del movimento di cui l’opera fa parte, il citazionismo nei confronti del cinema stesso, con omaggi in particolare al genere noir americano, ai suoi canoni stilistici e a tutte le nuove tecniche registiche che lo accompagnarono.

Fino all’ultimo respiro è dunque un grande omaggio al cinema del passato che, al contempo, proietta il suo sguardo verso il futuro, contrapponendo all’apparente semplicità del racconto un linguaggio filmico basato sulla frattura, sulla contraddizione, sullo svelamento stesso della finzione: rottura della quarta parete, riprese effettuate con la macchina a mano, tagli di montaggio dal ritmo irregolare, raccordi intenzionalmente sbagliati sono solo alcune delle novità stilistiche che Godard sfrutta per distogliere violentemente lo spettatore dal suo sonno acritico e passivo.

“Godard cambiò tutte le regole” racconta Bertolucci “il suo linguaggio era oltraggioso, veloce, leggero. Ci disse che esistevano altri modi per raccontare una storia”.

In meno di quattro settimane, con un budget limitato e senza neanche tutti i permessi necessari per girare in esterna, Godard diede quindi alla luce una pellicola che mutò la sintassi del cinema moderno, perché rivendicava quella libertà che non solo le case di produzione, ma anche gli spettatori, troppo spesso, non volevano concedere al linguaggio cinematografico.

Fino all’ultimo respiro” sostenne lo stesso Godardappartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Qualsiasi cosa facessero i personaggi poteva essere integrata al film. Era il punto stesso di partenza del film. Mi dicevo: c’è già stato Bresson, ora c’è Hiroshima. Si chiude un certo genere di cinema, forse è finito, mettiamo la parola fine, facciamo vedere che tutto è permesso”.

A cura di Bianca Formichi

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