Un passato da dimenticare, un presente complesso, un futuro incerto. 84 milioni di abitanti, la seconda foresta pluviale più grande al mondo, un sottosuolo ricchissimo, il corso di un lungo fiume. Un paese nel cuore del continente africano: il Congo.
La travagliata storia della Repubblica Democratica del Congo ebbe inizio nel XIX secolo, quando il re del Belgio Leopoldo II mise gli occhi sulla regione del fiume Congo. Le sue rivendicazioni sul territorio vennero riconosciute dalla Conferenza di Berlino; così nacque il Libero Stato del Congo. Leopoldo II trattò il paese come un vero e proprio possedimento privato e si macchiò di terribili atrocità nei confronti dei locali; ciò fino a quando, mosso dalle pressioni di Gran Bretagna e USA, non si vide costretto a cedere l’amministrazione del territorio al governo del Belgio, dando vita al Congo belga. Il paese raggiunse l’indipendenza nel giugno del 1960, tuttavia – di fatto – non ha mai smesso di essere una colonia. Questa data segnò l’inizio di un periodo di instabilità politica, economica e sociale che dura ancora oggi. Il Congo, da allora, ha vissuto una dittatura e vari conflitti, tra i quali quello che l’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright definì la “Prima Guerra Mondiale Africana”.
Dopo essere stato uno dei principali alleati degli USA durante la Guerra Fredda il Paese attraversò una profonda crisi economica e sociale che ben presto assunse una rilevanza internazionale. Del resto le enormi ricchezze custodite nel sottosuolo del Congo sono fin da sempre state un affare internazionale. Basti pensare ai giacimenti di coltan, prezioso tesoro del paese gestito dal Ruanda. Nella RDC si trova, infatti, l’80% delle riserve mondiali di coltan, minerale fondamentale nell’industria informatica, estratto praticamente soltanto in questa zona. Le riserve di cobalto, invece, che costituiscono il 47% di quelle mondiali, sono nelle mani dei cinesi. I diamanti, poi, oltre 22 milioni di carati, sono amministrati da varie multinazionali. Nonostante la grandissima abbondanza di materie prime, a causa dell’assetto economico del paese, basato sulle esportazioni, ancora molto simile a quello di un paese coloniale, il PIL pro-capite è di circa 450 dollari, uno dei più bassi al mondo. Un congolese, in media, vive con appena due dollari al giorno. L’ISU − 0,433 − pone il paese al 176esimo posto nella classifica mondiale. Il 75% della popolazione è impiegato nell’agricoltura, tuttavia si tratta di un’agricoltura di sussistenza e, nonostante ciò, secondo l’UNICEF, soltanto nella parte orientale del paese oltre 8 milioni di persone si trovano in condizioni di insicurezza alimentare acuta. L’industria estrattiva, inoltre, non porta alcuna ricchezza ai locali, che pagano il più alto prezzo per lo sterminato sfruttamento delle risorse minerarie, non solo dal punto di vista economico. Secondo una ricerca condotta dalle università di Lubumbashi, infatti, l’esposizione all’inquinamento tossico nelle miniere di cobalto provoca difetti congeniti nei figli dei minatori, costretti a lavorare in condizioni estremamente disagiate, sprovvisti anche dell’attrezzatura di protezione essenziale ed esposti a continui rischi. Neanche ai bambini, spesso costretti ad abbandonare la scuola per un bassissimo salario, viene risparmiato il duro lavoro in miniera. Nel dicembre 2019 è stata aperta una causa da quattordici famiglie congolesi contro Apple, Google, Microsoft, Dell e Tesla, accusate di favorire gravi lesioni e in alcuni casi il decesso dei giovanissimi che lavorano nelle miniere di cobalto.
Povertà e instabilità politica sono terreno fertile per i gruppi armati, che vivono di disordini e miseria. Un rapporto del Kivu Security Tracker ha stimato la presenza di oltre centoventi milizie irregolari nel nord-est del paese. Ciò nonostante, le numerose spedizioni militari dell’esercito congolese, che mettono in evidenza la mancanza di un potere centrale forte, che fatica ad affermarsi. Le milizie irregolari si finanziano e rivendicano il proprio potere con frequenti rapimenti e sequestri, attacchi brutali di cui sono vittime soprattutto i locali e che rendono la zona la più insicura e instabile del paese. Nel rapporto dell’UNICEF “FEAR and FLIGHT: An Uprooted Generation of Children at Risk in the Democratic Republic of the Congo” vengono raccolte testimonianze di bambini reclutati dai combattenti delle milizie, vittime di violenze sessuali e altre gravi violazioni dei diritti umani. Questo fenomeno ha subito un incremento del 16% nel primo semestre del 2020. Tali gruppi sono mossi non soltanto dalla volontà di rivendicare la propria autorità, ma anche – e soprattutto – dall’intento di sfruttare, direttamente o indirettamente, le risorse del paese, che, più che una ricchezza, sembrano costituire il più grande ostacolo del Congo.
A cura di Alessia Prunecchi