Stadio Azteca di Città del Messico, 22 giugno 1986, minuto 51’ di Argentina – Inghilterra, quarti di finale del mondiale.
L’argentino Diego Armando Maradona ha appena segnato con la mano. Sugli spalti nessuno esulta, tutti si aspettano un calcio di punizione per l’Inghilterra, ma i giocatori dell’Argentina festeggiano e l’arbitro convalida normalmente la rete. Il pubblico, comprendendo l’errore del direttore di gara, esplode allora in un boato di gioia.
Bastano pochi minuti perché el pibe de oro si ripeta, mettendo a segno quello che è considerato “il gol del secolo”. Al minuto 55’ Maradona supera tutta la difesa inglese e, dopo aver scavalcato il portiere, insacca il pallone.
I due gol segnati all’Inghilterra sono lo specchio della sua vita, segnata da eccessi, dentro e fuori dal campo, da colpi di genio e da autogol che hanno cambiato la sua carriera, innalzandolo prima a emblema dell’estro imprevedibile e alimentando poi le critiche dei detrattori più accaniti.
Di seguito, alcuni dei nostri ricordi personali di Diego Armando Maradona.
Genio e sregolatezza, Diego Armando Maradona è stato forse il più grande rappresentante di questo idioma, insieme a quel George Best che è morto proprio un 25 novembre di 15 anni fa. Entrambi maghi sul campo, emblemi di discontinuità ma anche di imprevedibilità, arroganza e sfacciataggine. George Best fu, per molti versi, una persona molto più fortunata di Maradona: fu idolatrato per quella vita ribelle e senza regole che lo aveva reso un simbolo. A Diego non fu riservato lo stesso trattamento, forse anche perché non aggraziato quanto il suo predecessore; la sua vita, in mezzo agli infiniti eccessi che lui stesso si concedeva, fu colpita da critiche e attacchi di ogni tipo. La partita che gli aprì le porte della leggenda fu senza dubbio Argentina – Inghilterra al mondiale ’86: per ’90 tutti gli argentini si immedesimarono nel loro idolo, che dette una doppia sberla agli inglesi che pochi anni prima li avevano umiliati alle Malvinas; la prima, con l’inganno della mano, concesse ai tifosi la soddisfazione dello sberleffo, la seconda, il gol del secolo, invece, restituì simbolicamente l’umiliazione che ancora ristagnava nei cuori argentini.
Nel corso degli anni la figura di Maradona ha subito una strumentalizzazione sempre più pesante e ipocrita, che lo ritraeva come un simbolo del gioco antisportivo. E proprio da questa concezione di antisportività si può tornare a una delle immagini più emblematiche della sua carriera, al mondiale ’94. Nella prima partita contro la Grecia, Maradona segnò la terza delle quattro reti che l’Argentina avrebbe poi registrato alla fine della gara. Dopo la straordinaria azione conclusa col suo mancino dal limite dell’area, Diego corse violento e deciso verso gli operatori a bordo campo, con un gesto di rivalsa dopo tutte le insinuazioni che avevano preceduto la partita. Arrivato davanti a una telecamera, fece in tempo a lanciare uno sguardo vivace e arrogante prima di essere strappato via dalla gioia dei compagni. Ma dopo la partita, cadde nello scandalo del doping, che lo avrebbe allontanato, in lacrime, dai campi da gioco. Maradona si difese dalle accuse, ma la sua immagine sarebbe purtroppo rimasta macchiata da quell’evento.
Si può affermare, senza paura di essere smentiti, che Diego Armando Maradona sia stato un Re Mida del calcio: ogni volta che sfiorava il pallone trasformava un’azione apparentemente insignificante in un pericolo per la difesa avversaria. Egli era anche, e forse di più, un Re Mida della vita, capace di tradurre la scalpitante esuberanza con cui giocava in un’inquieta esistenza. Ma non solo.
Maradona era il simbolo del popolo, il figlio scapestrato dei quartieri più poveri che, nonostante tutto, ce l’aveva fatta ed era diventato il migliore. Non era semplicemente un calciatore, ma un’artista che ogni domenica si ergeva a difensore di una collettività e intesseva trame di gioco degne non della pacata razionalità di un Leonardo, ma della passionalità e dell’impulsività di un Michelangelo o di un Caravaggio.
Maradona, quindi, resterà.
Resterà nelle vecchie figurine, nei murales e nelle sculture.
Resterà, che lo si voglia o meno, che non lo si conosca o che si pianga la sua perdita, in tutti noi come la parte più geniale e, al tempo stesso, quella più fragile.
Resterà, perché è un dio, il più umano degli dei, per questo il più affascinante, il più amato, il più odiato.
Scriveva Pasolini che il dribbling tipicamente sudamericano, all’interno del linguaggio calcistico, è assimilabile a una poesia. Pur non avendo avuto la possibilità di vederlo giocare, Pasolini aveva previsto quello che sarebbe stato Diego Armando Maradona: un poeta maledetto. Molti lo chiamano eroe, se non dio. Maradona, però, non è stato nulla di tutto questo. Anzi, el pibe de oro è stato il più umano dei campioni. In lui convivevano un talento ineguagliabile e una profonda debolezza psicologica; il genio sul campo doveva fare i conti, alla sera, con la dipendenza dalla cocaina e dall’alcol, con le amicizie negli ambienti della camorra. Maradona non è stato un eroe, nel senso greco del termine, inteso dunque come modello per la comunità, né mai lo sarà. Rimarrà invece un simbolo, un oggetto di studio e di ammirazione tecnica. Maradona, del resto, ha rappresentato la possibilità di riscatto per milioni di argentini: dai campi terrosi della periferia di Buenos Aires alle vette del calcio mondiale. La vita di Maradona è stata così, gloriosa e tragica allo stesso tempo. E proprio perché Maradona ha vissuto tra questi due estremi, riguardandolo, oggi, avverto un’insolita leggerezza, come se avessi davanti un bambino che, sospeso su un abisso, palleggia un’ultima volta, sulle note di Live is life.