Luca Sofri è giornalista e direttore del giornale online ilpost.it. Ha lavorato con Il Foglio, Internazionale, Vanity Fair, Panorama, l’Unità, il Venerdì, GQ, La Gazzetta dello Sport e Wired. Ha condotto Otto e mezzo su La7 con Giuliano Ferrara nel 2003 e Condor su Radio Due tra il 2003 e il 2009. Il suo blog, Wittgenstein, è tra i più seguiti in Italia. Per Rizzoli ha pubblicato Playlist (2008), Un grande paese (2011) e Notizie che non lo erano (2015).
Direttore, iniziamo con una domanda di presentazione. Lei è fondatore e direttore del giornale online Il Post; cos’è che vi contraddistingue e vi rende speciali nel panorama giornalistico italiano?
«Fondamentalmente abbiamo creato Il Post per cercare di introdurre nell’informazione italiana più contemporaneità sul digitale e sull’online, una migliore accuratezza e affidabilità (che è ciò che ci caratterizza di più) e una maggiore chiarezza, contestualizzazione e “spiegato bene”, come diciamo spesso».
Proprio sull’affidabilità, i giornali più importanti come il Corriere e Repubblica, in fondo ai loro articoli online, diffondono notizie fuorvianti e di bassissimo livello.
«Sì, e questa non è tanto una questione di notizie false quanto di soldi. Alcune testate decidono di essere indulgenti rispetto a contenuti pubblicitari e promozionali ingannevoli che non vengono presentati come tali, ma travestiti da contenuti della testata stessa. Ciò non induce ad essere ingannati, perché questi articoli sono palesemente smentiti dalla loro natura, però possono illudere il pubblico di trovarsi davanti a delle notizie quando invece si tratta di pubblicità».
Pensa che la digitalizzazione prenderà sempre più piede nel giornalismo? Oppure il fascino della lettura su carta rimarrà comunque?
«La digitalizzazione ha già preso piede parecchio. L’influenza di quello che è online, in termini di contenuti, è molto maggiore rispetto a ciò che viene scritto su carta. Inoltre la carta continua ad avere costi economici molto alti e ricavi che diminuiscono. Quanto resterà importante la carta nei mezzi di informazione? Credo ancora per parecchio e sicuramente continuerà ad avere centralità. Malgrado molte persone ormai si informino dalla televisione o dai social media, l’origine delle notizie che ascoltiamo continua ad arrivare dai quotidiani di carta».
Riguardo ai numeri, ricordiamo che nella sua intervista a Massimo Giannini, il direttore de La Stampa, lui disse che il 70/80% delle entrate di Repubblica e de La Stampa stessa provengono ancora dal cartaceo. Nonostante la preminenza del digitale, la carta sembra ancora essere importante sul piano dei ricavi.
«Soprattutto sul piano dei ricavi. Le persone pagano di più e con maggiore consuetudine la copia di carta piuttosto che quella digitale: su internet siamo abituati ad avere tutto gratis. E gli inserzionisti pagano meglio gli spazi pubblicitari sui giornali per delle ragioni fondate: sulla carta sono più limitati, anche perché i giornali di carta stessi sono limitati, rendendoli quindi più appetibili. Online, invece, ci sono spazi infiniti per inserire le proprie promozioni e questo ovviamente fa abbassare il loro valore. La visibilità e la qualità della pubblicità sui quotidiani, poi, pur con i numeri calanti, continua a costituire un asset maggiore. Tuttavia, queste entrate che sono così importanti per i giornali stanno diventando più trascurate dalle aziende, a fronte dei prezzi sempre più bassi della pubblicità online e della sua capacità di raggiungere pubblici molto più mirati e definiti».
Il 15 settembre 2020 è uscito il primo numero del nuovo giornale di Carlo de Benedetti, Domani. Cosa si aspetta da questo quotidiano, l’ennesimo di stampo progressista?
«Ennesimo non direi, perché i quotidiani progressisti sono praticamente spariti. Se prendete i venti giornali più venduti in Italia, gli unici due che possono essere ancora definiti tali sono Repubblica, di proprietà della famiglia Agnelli, mai storicamente nota per un atteggiamento riformista, e Avvenire, con posizioni di sinistra sui diritti, sulle migrazioni e sulla solidarietà, ma di proprietà della CEI e dei vescovi. Sono quindi due situazioni abbastanza paradossali nel definirsi progressiste. Detto questo, sono curioso di Domani. Non mi aspetto tantissimo in termini di innovazione da un quotidiano nato dalle intenzioni di un editore (De Benedetti, ndr) che con tutti i suoi meriti e le sue capacità ha oltre ottant’anni e ha a che fare con quarant’anni di esperienza nel giornalismo tradizionale. Poi, bene se i giornalisti che ha coinvolto riusciranno a spostarlo verso posizioni sovversive, ma a guardarlo mi sembra un quotidiano normalissimo e simile agli altri».
Sempre a proposito di stampa italiana, la Repubblica sembra aver cambiato parzialmente linea ideologica in seguito all’acquisizione del suo gruppo editoriale da parte della famiglia Agnelli. Che impatto sta avendo sul quotidiano paladino della sinistra riformista italiana?
«C’è sicuramente una quota di lettori molto grande che Repubblica si è costruita negli anni e che quindi digerirà o tollererà questi cambiamenti. Il direttore di Repubblica ha detto che questa scelta mira ad allargare la platea di lettori. Certamente ha messo in conto che ne perderà ma probabilmente spera di ottenerne di nuovi non direttamente provenienti da quell’ambito di simpatie politiche tradizionali. A me sembra molto difficile che nel 2020 un quotidiano, soprattutto cartaceo, guadagni lettori; il massimo che si può fare di questi tempi è di trattenere quelli storici. I numeri poi non gli stanno dando ragione: negli ultimi mesi Repubblica e gli altri quotidiani del gruppo GEDI hanno avuto un declino molto maggiore rispetto ad altri».
Come scritto nella vostra newsletter Charlie, l’Atlantic ha guadagnato 20mila nuovi abbonamenti dagli attacchi di Trump. E’ un meccanismo che funziona sempre, come l’attacco di Salvini a Repubblica in seguito al titolo “Cancellare Salvini?”
«E’ un meccanismo che funziona da sempre. E’ noto il detto per cui i giornali vendono di più quando sono all’opposizione e vendono di meno quando hanno posizioni vicine alle maggioranze di governo. L’attività di critica e contestazione offre molte più possibilità rispetto al consenso e al sostegno. Si tratta quindi di un fenomeno storico e non nuovo. L’elemento di novità, negli ultimi decenni, è il frequente attacco da parte dei politici a specifici giornali. Prendiamo, appunto, l’esempio del titolo “Cancellare Salvini”. Quella questione, a prescindere da quanto potesse essere discutibile, si risolse in minacce e attacchi nei confronti dell’allora direttore di Repubblica Carlo Verdelli, che fu costretto ad essere messo sotto scorta. Nessuno mette quindi in dubbio che ci sia questo genere di pericoli, ma è evidente che i giornali cerchino di mobilitare e compattare le proprie truppe di lettori enfatizzando gli attacchi che ricevono».
In un articolo pubblicato sul suo blog wittgentsein.it, ha ironicamente definito “strategia dell’opossum” la linea politica del PD. Il centro-sinistra avrà ancora occasione di risollevarsi o è destinato a implodere?
«E’ tutto molto incerto. Soprattutto è molto deprimente e deludente che non ci siano delle prospettive e dei progetti credibili di un cambiamento, di una sovversione o un’alternativa diversa che magari si possa costruire da qui a 5 o 10 anni. La cosa più preoccupante non è tanto il presente, quanto la mancanza di costruzione di un progetto politico».
Cosa voterà al referendum?
«Non lo so cosa farò, è probabile che non vada nemmeno a votare. Alla fine non lo trovo particolarmente importante in nessun senso».
Per concludere, se un giovane come noi volesse fare il giornalista, cosa gli consiglierebbe? E’ diventata oramai una professione che offre poche possibilità?
«Ci sono poche possibilità. C’è una sproporzione enorme tra l’offerta e la domanda. Tantissimi giovani vogliono diventare giornalisti, spesso però con un’idea del giornalismo molto tradizionale e un po’ anacronistica. La scrittura è ormai una parte non così importante del lavoro del giornalista e anche la cosa più facile da imparare ad un livello più che sufficiente; ciò che manca è solitamente un approccio più contemporaneo e innovativo al giornalismo. Cosa si deve fare quindi? Riuscire ad inventarsi cose diverse, che è proprio ciò che i ragazzi di età poco maggiore della vostra tendono a non fare: solitamente cercano di replicare i modelli che vedono intorno, ma dovrebbero introdurre idee, approcci ed esperimenti innovativi nelle proposte, cosa molto complessa e paradossale quando ancora si hanno esperienze limitate».
E se ci dovesse consigliare un percorso di studi per fare il giornalista, cosa ci direbbe?
«Sono un po’ inadeguato perché conosco poco le scuole di giornalismo, quindi non ne so giudicare la qualità. Delle volte, però, ho avuto l’impressione che anche quelle continuino ad essere sempre un po’ cronistiche e non molto attente all’innovazione, nonostante gli sforzi. E’ anche vero che queste strutture sono molto legate al mondo dell’informazione italiana; a parte quello che insegnano, quindi, sono un ottimo canale d’ingresso verso ambienti giornalistici privilegiati. Suggerirei piuttosto di approfittare di tutte le occasioni per tenersi informati e aggiornati su qualunque cosa che questi tempi ci offrono. Mi sembra che oggi il modo migliore per fare i giornalisti sia essere molto duttili e capaci di stare sui temi, sui piani e sui formati più variegati».
Intervista a cura di Ludovica Straffi e Luca Parisi, con la collaborazione di Tommaso Becchi