Il 16 gennaio 2020 è successa una tragedia. No, non c’è stata un’alluvione, non è crollato un palazzo di cento piani, non si è acceso un nuovo incendio sulla superficie di questo mondo malandato. Nessun barcone è affondato, nessuna guerra è stata dichiarata, nessun terremoto ha scosso la terra. Eppure, sì, è successa una tragedia. Il 16 gennaio 2020, giusto un mese fa, un ragazzo è uscito dalla Facoltà di Lettere a Firenze. Le ruote della sua sedia a rotelle si sono bloccate in una buca. La carrozzina si è ribaltata, e il giovane è cascato. Quel ragazzo si chiamava Niccolò Bizzarri ed è morto in ospedale sette ore dopo la caduta. In piazza Brunelleschi, il suo sangue ancora a macchiare le pietre.
Come si doveva sentire, Niccolò, mentre giaceva sul lettino dell’ambulanza? Spaventato, arrabbiato, tradito? E come ci dobbiamo sentire, noi, mentre leggiamo questa terribile notizia? Spaventati, arrabbiati, traditi? Ma non possiamo solo crogiolarci nei nostri sentimenti, limitarci alle frasi di circostanza, ai “poverino”, ai pensieri tristi che compatiscono i suoi genitori. Dobbiamo alzare gli sguardi bassi in modo da poter vedere la esasperante realtà che ci circonda: dai molti autobus che non hanno le pedane per i disabili, a tutte le barriere architettoniche che precludono a chi è in carrozzina l’accesso a svariati luoghi (basti pensare agli ingressi dei negozi), fino alla nostra stessa società, campionessa di abilismo (cito: “la discriminazione nei confronti di persone diversamente abili”). Il caso di Niccolò riflette, amplificandoli, quelli di chissà quanti altri ragazzi e ragazze, che, a causa di una disabilità fisica o mentale, vengono ostracizzati dalla comunità con una brutalità mascherata di lontana accettazione perché “non possono fare sport- lavorare- commettere sbagli- amare qualcuno- VIVERE”. Se e quando ci fermiamo, schermandoci dalla differenza con sorrisetti pietosi e sguardi pudicamente puntati altrove, alla sedia a rotelle, al cane guida o ai meltdown in un supermercato affollato, ci perdiamo tutta una persona, con i suoi sogni, i suoi difetti, i suoi segreti. Ma la chiusura verso il diverso non è solo una rapina alla nostra ricchezza interiore e un’offesa alla sua: è anche e soprattutto una caduta di tutto il genere umano in un luogo oscuro che, come la tanto ripetuta frase “siamo nel 2020” rammenta, avremmo dovuto abbandonare secoli e secoli fa o, meglio ancora, non raggiungere mai. Sembra che la buca che ha ucciso Niccolò Bizzarri abbia ucciso anche la nostra accoglienza, la nostra humanitas, la nostra seppur minima accettazione dell’altro! E questo omicidio, metaforico o reale, non è accettabile. Mai.
Ciò che mi disgusta di più è il bigottismo di chi ostenta una grande apertura mentale, magari repostando su Facebook qualche immagine strappalacrime di un bambino “sfortunato”, ma poi, alla resa dei conti, non si comporta in modo inclusivo, anzi. Trovo l’offesa e il disprezzo aperti ed evidenti alle persone disabili inaccettabili, ma quelli subdoli e spesso ignorati mi fanno arrabbiare (e imbarazzare) ancora di più. Gli esempi di questa diffidenza interiorizzata e normalizzata, ma non meno dannosa di una condannata da tutti, sono in ogni luogo e in ogni circostanza: quando cammina sul marciapiede qualcuno con la sindrome di Down, e il suo passaggio è seguito da occhiate e imbarazzo come una nave dalle scie di schiuma; quando una signora in Sita si lamenta a mezza voce perché “non si può perdere sempre tutto questo tempo a farlo salire”, e mentre la pedana scende lo trafigge di sguardi pietosi e impazienti; quando una madre grida al mondo di come quel mostro crudele dell’autismo le abbia rubato il suo dolce bimbo e cerca disperatamente una cura, diffondendo la notizia sbagliata che questa condizione sia una malattia. Dobbiamo essere tutti molto attenti a non cadere nella difficilmente individuabile trappola della discriminazione nascosta e talvolta inconsapevole: lo dobbiamo a Niccolò, a Iacopo Melio (il fondatore della Onlus #vorreiprendereiltreno), a Chris di SBSK (canale YouTube che si occupa di inclusività), e a tutti coloro che si impegnano ogni giorno nella lotta contro i pregiudizi.
Credo che ognuno di noi abbia commesso, chi più innocentemente, chi meno, un atto di abilismo: anzi, sono ottimista ad attribuirne solo uno a ciascuno. Spero, comunque, che la maggior parte di noi abbia discriminato senza volerlo, in un attimo di distrazione dall’uguaglianza della vita. Nonostante siamo stati carnefici e creatori di disparità- e chi non lo è stato? -forse siamo anche le vittime più fortunate della società e dell’ignoranza. Scrivo questo non per giustificarci, ma per trovare il motivo per cui quasi tutti hanno fatto la parte dei bulli. E il motivo, come sempre, è questo: il non conoscere. Questo antico male si risolverebbe se avessimo tutti il coraggio effettivamente di parlare con qualcuno disabile: parlare con lui non come una persona-in-carrozzina o persona-con-autismo, ma come con una persona-con-un-cervello-e-un-cuore. Ci renderemmo subito conto che quell’individuo è, appunto, un individuo, come noi, formato da interessi, punti da migliorare, magari pure l’ignoranza di cui parlavo. Quindi, appena avrete finito di leggere il mio articolo fra poche righe, non rimanete chiusi nella bolla di, auspicabilmente, parziali nozioni e curiosità: uscite a conoscere. Uscite a imparare.
A cura di Elisa Salvadori