L’infinito della fotografia

Henry Fox Talbot non sapeva disegnare. 

Nel diciannovesimo secolo, il Grand Tour d’Europa era una realtà affermata, e così nemmeno Talbot poté rifiutare di parteciparvi. Si recò spesso in Italia coi suoi familiari. Ma mentre questi facevano schizzi dei monumenti, coi loro fogli e le loro matite, Talbot restava a guardare, amareggiato. Fu probabilmente il suo sguardo troppo spesso perso nel sole che lo ispirò, col tempo, a portarsi dietro una camera lucida dotata di uno speciale specchio inclinato, con cui riusciva allo stesso tempo a vedere soggetto e riproduzione. Fu così che Talbot imparò a scrivere con la luce.

Oggi, l’esperienza di Henry Fox Talbot è considerata fondamentale per la nascita della fotografia e, in particolare, di una sua antenata, la calotipia, molto in voga nel mondo anglosassone dell’Ottocento, che si differenziava dalla dagherrotipia in quanto le immagini scattate potevano essere stampate su carta, e dunque su grande scala. Questo fu un enorme successo, visto che garantiva alle immagini di diffondersi facilmente grazie a un materiale, la carta, economico e versatile. Talbot spianò la strada a quella che nel secolo successivo si sarebbe definitivamente affermata come una nuova arte: la fotografia. 

“Non si esiste che quando si è fotografati” aveva detto Jorge Luis Borges, e questa frase probabilmente non sarebbe mai stata pronunciata se Talbot avesse saputo disegnare; non avrebbe riflettuto su un metodo alternativo di imprimere su un foglio le bellezze che vedeva girando per l’Europa, a cominciare dai primissimi negativi che ritraevano delle foglie (riuniti ne “La matita della natura”, raccolta fotografica del 1844, la prima mai realizzata nella storia). È stato dunque un limite a consentire la nascita di un’arte. 

Qualche anno prima degli esperimenti di Talbot sulla calotipia, un altro uomo si rapportava col limite, certo non scrivendo con la luce, ma in una maniera più ‘convenzionale’, e cioè con una penna e dell’inchiostro. Era il 1819 e a Recanati Giacomo Leopardi compose il suo “Infinito”, che proprio l’anno scorso ha compiuto duecento anni. La lirica, che rappresenta una grandissima innovazione rispetto alla tradizione poetica precedente, presenta, solo su un colle, il poeta che ammira il paesaggio circostante, nel quale è immerso in uno stato di meditazione del tutto intimo, indagando sul tempo e sul destino dell’uomo. La vista di una siepe, nella sua contemplazione, innescherà i meccanismi dell’immaginazione, con cui riesce a scavalcare quell’ostacolo. Così, come Leopardi, anche Talbot fugge e valica i limiti che incontra sul proprio percorso: dall’incapacità nel disegno e dal sentimento di emarginazione plasma una nuova forma d’arte.

Ecco, il limite è probabilmente uno dei più grandi doni che l’uomo possa ricevere. Modellandosi su tale incapacità, sviluppa capacità del tutto inaspettate e rivoluzionarie. Non importa se tale innovazione valga per uno o per milioni di esseri umani, perché, finché la società sarà composta di singoli, il che sembra diventare un’utopia, a meno che non lo sia già, quella capacità di volare detta ‘immaginazione’ darà slancio all’uomo, nutrendolo d’arte, consentendogli di fotografare il mondo e di scavalcare l’altissima siepe che impedisce l’ammirazione dell’Infinito.

A cura di Federico Spagna

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