Mercoledì 24 Ottobre al Dipartimento di Architettura in via della Mattonaia si è tenuto un incontro in ricordo di Vincino dal titolo “Una risata vi seppellirà”, in cui è stato presentato il libro “Mi chiamavano Togliatti…”. Durante la presentazione sono intervenuti personaggi del calibro di Michele Serra e Sergio Staino, che si sono entrambi mostrati molto disponibili nei nostri confronti e ci hanno volentieri rilasciato le interviste.
Intervista a Michele Serra
Cosa l’ha spinta a diventare scrittore e giornalista e come ha iniziato questo percorso?
La scrittura è sempre stata una mia passione fin da bambino: ero il classico che prendeva otto nel tema di italiano e tre in matematica. Successivamente ha contribuito il caso, che nella vita conta tantissimo: un mio amico che faceva lo stenografo all’Unità di Milano, che allora era un giornale molto importante, andò militare e mi disse che avrei potuto fare qualche ora di stenografia notturna. Accadde così, sono entrato a venti anni per puro caso per fare la sostituzione notturna di stenografo in un giornale e poi sono diventato amico di qualche giornalista; da lì è diventato tutto molto lineare e semplice.
Cosa consiglia a dei ragazzi come noi che sono interessati al mondo del giornalismo?
Se dovessi dare un consiglio realistico e calcolato direi di non pensarci neanche, perché da un punto di vista professionale è un mestiere in crisi paurosa. E’ ormai diffusissima l’idea dell’informazione gratuita, un po’ come se ci fosse il pane gratis ad ogni angolo di strada: perché la gente dovrebbe andare dal fornaio? Se è una grande passione si deve sperare che qualcosa cambi, deve tornare a circolare l’idea che le cose buone raramente sono gratuite e quindi che si ricrei un circuito di informazione di qualità a pagamento.
Qual è la responsabilità più grande che avverte nel suo lavoro?
La responsabilità è nei confronti della parola. Qualche mio collega direbbe nella verità. La verità è un concetto complicato, se ascolti i commenti politici ti rendi conto che le verità sono tante e che non sono altro che una composizione di diversi punti di vista. Anche per questo ho preferito dire che ci vuole responsabilità nelle parole che si usano. Le parole sono meravigliose, ambigue, usate male funzionano male e usate bene funzionano bene, quindi ciò che conta è la scelta delle parole, il racconto e il modo di raccontare. La stessa cosa la puoi dire in modo non falso, non calunnioso e corretto ma noiosissimo e privo di anima oppure la puoi dire in modo affascinante, accattivante e …comunicante; la scrittura è fatta per comunicare e meglio si scrive, meglio si comunica. Il consiglio che darei è di stare attenti a ciò che si scrive e di rileggere sempre; anche negli SMS funziona così, non mi piace quando li ricevo con errori di battitura, è sbagliato, è una sciatteria che diventa un contagio.
Ci sono stati dei personaggi che l’hanno influenzata nella scrittura? Quali sono?
Tanti, tantissimi. Quando leggevo da ragazzino i giornali uno era Stefano Benni, corsivista del Manifesto, l’altro era Fortebraccio dell’Unità: due mostri di bravura. E’ come quando guardi un quadro e vorresti saper dipingere così. La stessa cosa vale per la scrittura. Per quanto riguarda la letteratura sicuramente Kurt Vonnegut e Philip Roth.
Cosa ne pensa infine del fatto che internet stia prendendo sempre più spazio tra le nuove generazioni e che quindi ci sia pian piano un abbandono della lettura?
Penso che il web sia una cosa bellissima, solo un imbecille può pensare che non sia così. I social sono un’altra cosa rispetto al web: un uso particolare del web del quale non faccio parte, non ho social. Mi sembra che abbiano un peso ricattatorio sulla vita delle persone, rischiano di dare troppo rilievo al gradimento degli altri. E’ più difficile piacere ad una persona che ad un milione di persone; può sembrare un paradosso ma è verissimo, è il rapporto che hai con un amico, un fidanzato o una fidanzata che determina il valore;L gli amici sui social o gli insulti c’è il rischio che diventino un ricatto tremendo e che impediscano la libertà. Ho un giudizio entusiasta del web e molto molto dubbioso dei social.
Intervista a Sergio Staino
Qual era il messaggio che voleva trasmettere con Jesus e la vignetta che lo riguardava?
Non c’è un messaggio specifico, io commento la realtà, la politica, la vita di tutti i giorni. Da tempo avevo in mente questo personaggio che ho sempre amato e che mi ha sempre affascinato, che è Gesù e che ho conosciuto da piccolino all’oratorio, ma appena ho ottenuto un po’ di coscienza sono diventato ateo: non riesco ad essere credente, tante volte ci ho pensato… ho tanti amici intelligenti che credono, ma io non riesco a capire come facciano. Però Lui (Gesù, ndr) mi piace tanto. La possibilità in quest’epoca di riportare una forma affettuosa, corretta, fraterna, solidale, anche all’interno del mio lavoro, poteva passare attraverso la sua figura, che è fortemente eversiva e rivoluzionaria. Non è un caso che Gesù sia stato un eroe ed un riferimento per i primi socialisti nell’800, che Lo consideravano il primo iscritto al partito, poiché era per l’emancipazione dei più poveri, dei più umili… e la stessa cosa pensavo di fare io. Mi è sembrato meraviglioso poterlo fare su “L’Avvenire”. E questo voleva dire che cominciavo un dialogo con persone credenti, che vedevano Gesù, forse, in modo più totalizzante di quanto non lo vedessi io e dunque la possibilità di discutere. Quello era il suo vero posto. Ora cercherò qualche altro giornale che possa accogliere le mie strisce. Se prima mi arrivavano lettere cattive, ora ne sto ricevendo di meravigliose, di persone che sono molto dispiaciute del fatto che non ci sia più questo personaggio.
E per quanto riguarda la religiosità, alla quale aveva già accennato prima, pensa che il progressivo allontanamento da questo sentimento sia dovuto da una Chiesa obsoleta e chiusa in se stessa oppure da una superficialità dei giovani?
Penso che sarei ateo non in polemica con la Chiesa o con i religiosi, ma perché non ci riesco, perché ho una concezione materialistica della vita e dell’universo. Non riesco a immaginare altre entità dopo la morte. In certi momenti è doloroso pensare ciò: muore una persona a cui sei molto legato e l’idea di rivederla nell’aldilà sarebbe anche bella, ma io sarei disonesto ad affermare di crederci. Non ho mai sopportato segni blasfemi, vignette offensive sulle religioni come quelle su Maometto, così come i preti che usano la religione per raggiungere il potere. A me piace chi usa la religione per interessi personali.
Cosa pensa invece della chiesa di Bergoglio?
Sono molto entusiasta che abbia preso questa iniziativa di lotta a favore di tutte le sofferenze del mondo e che abbia messo in prima linea gli ultimi: tutto ciò è meraviglioso. Questa è una delle ragioni per cui ho scelto “L’Avvenire” come giornale, perché da questo punto di vista è molto ‘bergogliano’ (“L’Avvenire” , ndr). È l’unico giornale italiano nel quale in prima pagina trovi notizie dai paesi più sperduti del mondo, dove avvengono delle infamie terribili. Certo, poi c’è un 25% di pensiero che non condivido, dalla bioetica ai diritti civili. Io sono per i matrimoni tra persone dello stesso sesso, sono per l’eutanasia, per l’aborto come ultima spiaggia per il controllo delle nascite. Per me è un atto doloroso, non c’è niente ovviamente per cui far festa; per loro è un assassinio, ma non mi sembra elemento da crociata. Ci sono problemi ben più grandi nel mondo e mi interessa lavorare su quelli.
Intervista a cura di Ludovica Straffi e Federico Spagna