Fa male dirlo. Fa male ammetterlo. In fondo, tutti amiamo la nostra città. Ma come spesso accade è la realtà in cui nasci, la realtà dalla quale impari il mestiere della vita che ti pugnala per prima, che ti delude. Ed ecco, Firenze mi ha deluso.
Un tempo meta meravigliosa, ora la sua preziosa bellezza, che cercavamo di conservare con gelosia, pare erosa, consumata dall’ignoranza del turismo di massa e dai cittadini traditori, che vendono la nostra città a branchi di stranieri accaldati che la sbranano, la accalcano e, inevitabilmente, la rovinano. Non esiste più il turismo interessato: oggi pare valga solamente il fatto di esserci stati in un luogo; magari, in questo caso, aver visto la cupola del Brunelleschi per poi essere subito ripartiti.
Quando vedo una velata indifferenza di turisti e cittadini mi sento il cuore maciullato, imbrogliato dalla mia casa e gettato sul lastrico di piccole cose oramai perdute. Eppure, davanti alla mia incontestabile impotenza di fronte a questa macchina di soldi che sta diventando Firenze, sento il dovere di dire qualcosa, anche valutando il rischio che il mio possa essere solo un sussurro,
calpestato e dimenticato dalla maggioranza.
Noi non possiamo accettare, non dobbiamo accettare questa realtà, eppure non possiamo neanche far finta che non esista, far finta di vedere le cose in altro modo scansando quella pellicola di malinconia che rovinerebbe noi stessi. No, sarebbe l’errore più grave. Dunque, per renderci veramente conto di ciò che sta accadendo e provare sulla nostra pelle le perdite altrui, ho deciso di parlare con una donna cui questo effetto domino squallido, che avviene a Firenze, è caduto addosso.
La signora con la quale ho parlato è proprietaria di un negozio in Via de’ Servi: ha deciso di cambiare attività e, emotivamente, chiudere i battenti, poiché costretta a lasciare ciò per cui aveva deciso di aprire. È un esempio, come tanti altri commercianti fiorentini, che non solo vengono soppiantati dai grandi colossi come Amazon (che non fanno altro che aumentare questo avido consumismo ed omologare questa società già di per sé stupidamente tendente all’uguaglianza spirituale), ma anche soprattutto dalla conseguente scomparsa di clienti. Passano centinaia e centinaia di persone ogni giorno da quella splendida via che collega il Duomo e Piazza Santissima Annunziata, ma quasi nessuno ormai si ferma. Comitive lunghe più di dieci metri che dopo aver bivaccato sugli scalini dell’Ospedale degli Innocenti, raggiungono in fretta e furia il Duomo, magari ignari di chi l’abbia costruito e quando. I turisti inoltre sembrano ignorare anche le altre botteghe, continuando il loro giro “mordi e fuggi”.
“È arrivato il momento di cambiare” Afferma la proprietaria del negozio, con molta tristezza ma anche determinazione “Il mio ritorno all’artigianato con gli abiti su misura è un tentativo di contrastare il consumismo di internet, qualità contro quantità. Firenze non mi ha di certo sostenuto in questi anni. È diventata una giostra, un’attrazione di massa: finita la corsa si torna a casa, senza essersi goduti neanche un dettaglio o un’emozione del giro”. Parole vere, di una voce provata ma sicura. Sono tutte nozioni della realtà struggente, di quella che ti scopre appena può del felice telo dell’infanzia, quando la tua città è ancora la più bella del mondo.
Poi prendi coscienza e seppur con dolore trovi tutti i difetti e problemi che rimpiazzano la precedente adorazione inconsapevole.
“È praticamente quasi cessato il rapporto commerciante-cliente: oggi con un clic su internet ci ritroviamo comodamente ciò che desideriamo a casa” prosegue la signora. Eseguiamo questa pratica superba senza lasciare le nostre mura di sicurezza e quotidianità che non fanno altro che incrementare una pigrizia già presente nei nostri anticorpi dalla nascita. “Hic et nunc” commenterebbe un qualche latino di fronte alla presunzione della nostra società.
“Nonostante siano sempre meno, gli artigiani che ancora col loro lavoro riescono a vivere qui a Firenze mi trasmettono coraggio” afferma la signora. “Sono un grande esempio, che seguirò e che spero potrà portarmi fortuna”.
Questa coraggiosa ma docile ribellione mi induce speranza. Non mi inebria di sogni, ma mi fa essere contento quel che basta per credere che ancora si possa fare qualcosa per Firenze. Avevo ammesso la mia impotenza incontestabile, è vero, ma questa città ha bisogno di tenacia, di motivazione. La personalità non le è mai mancata, ma si sta affievolendo sempre di più. È nella nostra indole non accontentarsi, e quindi non accontentiamoci di avere un enorme patrimonio artistico e milioni di turisti l’anno: dobbiamo individuare ogni singolo problema, e, dato che la perfezione non esiste e tantomeno mai potremo crearla, ci sarà sempre da rimediare. Da ora dobbiamo riparare al danno creato dal consumismo, alla piaga del conformismo che sta lacerando il nostro centro storico. Dobbiamo difendere la tradizione in prospettiva del futuro. Il passato può insegnarci tante cose e, di questi tempi, è spesso più saggio e ragionevole. Sollecitiamo le nostre individualità, non rimaniamo in disparte. Provochiamo, e azzardiamo. Perché Firenze non si può meritare la palude nella quale è impantanata.
A cura di Federico Spagna