L’altra sera stavo sistemando la mia libreria, quando mi sono reso conto di un fatto sconcertante. Ho controllato, ispezionato, contato, poi sono ricaduto su una sedia, cogitabondo. Il fatto che mi aveva così profondamente colpito è presto detto. Negli ultimi anni ho comprato all’incirca mille e cinquanta romanzi gialli. E ovviamente non so più dove metterli, anche se la maggior parte a malapena supera le duecento pagine e sono quasi tutti in edizione tascabile. Ho riflettuto sul perché ho sviluppato un così spasmodico amore per questo genere letterario. Un genere strepitoso, raffinato, profondo, che ha l’inarrivabile pregio di confezionare in una struttura granitica, oserei dire fiabesca, una densità umana vorticosa e illimitata. Un genere che per troppo tempo è stato sminuito, solo per il fatto di essere popolare, quando in realtà, negli ultimi due secoli, vi si sono cimentanti filosofi, economisti, politici, studiosi, psicologi e avvocati. Come dimenticare, poi, il primo e il più grande di tutti i gialli della storia, scritto duemila e cinquecento anni fa, l’Edipo re di Sofocle? Una tragedia che è primamente una drammatica ricerca dell’assassino, che infine si rivela essere, con un fragoroso colpo di scena, l’investigatore stesso.
Se tuttavia vogliamo essere canonici, il primo giallo della storia è un racconto del celebre Edgar Allan Poe, I delitti della rue Morgue, uscito nel 1841. In questo racconto, cui seguiranno Il mistero di Marie Roget e La lettera rubata, il detective è Auguste Dupin, a cui si ispirerà lo stesso Conan Doyle nel delineare il più famoso e duraturo degli investigatori: Sherlock Holmes.
Alla strada inaugurata da Poe segue, stavolta con un romanzo, quello che Thomas Eliot ha definito “il primo e il più grande romanzo inglese d’investigazione”. Sto parlando della Pietra di luna di Wilkie Collins (1868), stretto collaboratore di Dickens e penna brillante. Un romanzo strepitoso, antesignano del genere, che per seicento e passa pagine non ha nemmeno un cedimento, tenendo accesa la curiosità del lettore con un cannoneggiamento incessante di colpi di scena formidabili.
Nel 1887, esce un romanzo destinato a cambiare la storia del giallo. Un medico scozzese, tale Arthur Conan Doyle, pubblica Uno studio in rosso, in cui fa la sua prima comparsa Sherlock Holmes, affiancato dall’alter–ego dell’autore, John Watson (tra parentesi, Sherlock non ha mai detto “elementare, Watson!”). Il successo è clamoroso. Doyle ha il merito di aver inventato il giallo deduttivo, scrollando via ai precedenti investigatori quella patina di superomismo che li caratterizzava. Eppure, strano a dirsi, egli detestava scrivere gialli. Ma come si sa, pecunia non olet: fioccano dunque i racconti, dal primo e meritatamente più celebre Uno scandalo in Boemia all’Ultima avventura (1893), in cui l’autore fa finalmente morire la sua creazione nelle cascate di Reichenbach. Quando un personaggio diventa un fenomeno planetario, non è più nelle mani del suo inventore, ma continua a vivere nel cuore dei lettori reclamando la sua presenza.
È così che, nel 1902, Doyle è costretto a farlo risuscitare con estrema nonchalance, in quello che rimarrà uno dei migliori gialli di tutti i tempi: Il mastino dei Baskerville ambientato in una suggestiva e inquietante brughiera inglese.
Nel Novecento il giallo diviene un genere adulto, smussato nei suoi fronzoli ottocenteschi e irrorato di vivacità e nuova tensione narrativa. Come non citare John Dickson Carr, Edgar Wallace, GK Chesterton, Ed Mcbain, Margery Allingham, Earl Derr Biggers, Helen McCloy, Van Dine, Patricia Highsmith, George Simenon, Dashiell Hammett, Ellery Queen, Raymond Chandler e la regina del giallo, Agatha Christie? Per la Christie ho un vero e proprio attaccamento affettivo. Mi sono appassionato al genere con un suo straordinario capolavoro del 1934, Assassinio sull’Orient Express e con Dieci piccoli indiani (1939). Nel 1928 pubblicò l’Assassinio di Roger Ackroyd, forse il migliore romanzo giallo di tutti i tempi. Scrisse 63 romanzi gialli, che vanno dal buono al capolavoro, e centinaia di racconti. I miei preferiti restano, ovviamente, quelli con l’eccentrico ma geniale Hercule Poirot.
Guardavo dalla sedia questa cascata di libri color ocra, tra cui anche la mia raccolta di gialli, Le prime indagini di William Esmerald, e mi chiedevo: perché leggere i gialli?
In primo luogo perché scaricano le pulsioni omicide. Gran parte degli omicidi nel mondo sarebbero sedati se tutti leggessero un paio di gialli al mese. È come un vaccino, però decisamente più divertente.
In secondo luogo perché adoro i cattivi. Detesto i buoni, quando leggo. Hanno un non so che di zuccherino, che alla lunga stucca. Invece i cattivi sono grandiosi, immensamente interessanti, pozzi fulgidi d’intensità narrativa. Nel giallo abbiamo la moltiplicazione, non dei pani e dei pesci, ma dei cattivi, poiché tutti sono potenzialmente l’assassino, e questo non può che rallegrare un lettore come me.
In terzo luogo è rilassante perché la struttura è sempre la stessa e il lettore sa che, alla fine, il colpevole sarà assicurato alla giustizia. Il giallo è la fiaba adulta per eccellenza, capace di conciliare il sonno o dare senso alle domeniche piovose.
Infine, il giallo deduttivo aguzza l’ingegno, avvalendosi dei medesimi processi logici che si stimolano con lo studio della matematica o delle lingue classiche. Ricordatevi, quando tradurrete una versione che, come dice Sherlock nel capitolo sesto del Segno del quattro “quando avete escluso l’impossibile, quel che rimane, per quanto improbabile, non può che essere la verità”.
A cura di Matteo Abriani